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FaldellaGiovanni-UnaSerenataAiMorti

Giovanni Faldella

Una serenata ai morti

I

ALL'OSTERIA

Un verde da vetriolo ammutolisce nei prati, le camere da pranzo sentono l'autunnale tanfo delle castagne lessate, e le cortine delle finestre prospicienti all'orto putono come una malora alla caduta delle pulverolente cimici selvatiche. Ridiventa buono l'interno dell'osteria.

Le partite a tarocchi e a bazzica, cui l'estate avea disperse o confinate in un angolo del pergolato per poche ore del vespro, si riuniscono di nuovo gagliardamente dietro la ghisa della cucina, e si protraggono fino a notte tarda.

L'osteria di Borgo Grezzo non ha titolo speciale, perché è unica; e le basta l'insegna della frasca; e la rinomanza dell'ostessa Ghitona. Un cacciatore, dopo averla assaggiata l'aveva dichiarata “non bella ma pulita”.

Si intende che questa definizione riguardava la persona di lei, e non gli arnesi delle sue tavole e della sua cucina. Imperocchéle tovaglie ne sono stomachevoli e nascondono nelle pieghe ditate di azzurro e barbigiate di giallo e di terreo; stagna sulle posate un unto indelebile; i bicchieri hanno il fondo non solo ruvido, ma nerastro e gli orli avvinati; la piatteria è, per costante elezione dell'ostessa, nerissima a fine di nascondere gli imbratti restati dalla rigovernatura; e nella saliera cenere di pipe, gocce di aceto, spruzzi di vino violaceo, soffi di pepe e pane trito, e lunette di rosso d'ovo lasciatevi dalle punte dei coltelli formano nel sale pastorizio iniezioni e stratificazioni pittoresche.

Un tumulto di cose disarmoniche circonda l'osteria e le sovrasta, come se l'anti-estetica fosse la legge, la divinità del luogo. Le fascine della chiudenda sono di varia età e pendono in direzioni diverse; hanno buchi pel passaggio delle galline e dei conigli, e dei monelli. Fra i loro stecchi nudi tengono imprigionati gusci d'ovo, stracci abbandonati che fanno un singolare contrasto con i piantoni di salici, che sputano tuttavia umori e foglioline.

Il pergolato è un rovescio di travicelli tarlati, un penzolio di foglie fracide da una stuoia di ontani morti, èuno scarduffiarsi di pampini di una vite irrugginita, mentre serpeggia e verdeggia la zucca, tuttavia vigorosa, e mostra qua e làle punte dei suoi fiori luminosi. Uno zuccone rubicondo rotola giù dal tetto come un deretano fustigato; i fagiuoli rampicanti gittano a diverse altezze uno zampillo di capettini viperei, curvantisi come impugnature di violino e punti di interrogazione esilissimi come una filigrana vegetale.

Il ballatoio della casa non ha sponda; quindi nella desidia campagnuola per evitare le cadute ai ragazzi, piuttosto che principiare il gran lavoro di una balaustra, si tiene per anni ed anni inchiodato il balcone, e buio il magazzino e camerino da letto, dove in un angolo talliscono le patate e le cipolle.

Eppure, nonostante questo fastello di sgarbo, disordine e cascaggine che la circonda, l'osteria della Ghita è l'unica nota confortante e ricreativa nella vita selvaggia di Borgo Grezzo. Quivi convengono come ad un'oasi il cacciatore, il viaggiatore di commercio, il viandante uscito di prigione, e quello ricercato dalla giustizia e i maggiorenti del paese. Il giovane medico condotto, famoso pel suo gaio umore, qui sfrottola tutte le sere le sue satire e le sue caricature acclamato dalle più cordiali risate degli astanti, a cui egli unisce il proprio cachinno fragoroso. Egli nel muovere verso il villaggio si era fatto il più saldo proposito di intraprendere e compirvi studi botanici, fisici, antropologici e scrivervi delle memorie scientifiche, ed ora da piùdi un anno, non toglie più nemmeno la fascia ai fascicoli di Riviste Mediche che riceve; egli che forse

sarebbe riuscito felice umorista anche nella letteratura; ravvolto dall'ambiente èdiventato una vera ricchezza di giocondità per l'osteria, cosicché molti ne sono assidui solo per lui, che si èridotto a trattenimento periodico serale, tanto che potrebbe farsi pagare dall'ostessa il proprio spettacolo.

Rivale del dottorino si èil signor Ambrogione, detto per antonomasia il Cottimista; perché è lui che da parecchi anni ha l'appalto dei canali demaniali e la manutenzione delle strade provinciali. Alto e membruto come un camallo genovese, porta sulle spalle prominenti incassato un collo corto che sostiene una testa piccina come di testuggine; veste una giacca e i calzoni di velluto di cotone rigato e qualche volta la blusina azzurra del carrettiere.

èveemente in tutto e specialmente nel bere. Entra con furioso affanno nell'osteria, gridando a squarciagola: - Ghita, un litro! - quando se l'èingollato, dice invariabilmente, elevando un sospiro di consolazione: - Ho ancora sete.

Allorchéviaggia in ferrovia, egli èlo spasso del vagone di terza classe, su cui sale. Sternuta come un terremoto, e ad ogni stazione si protende fuori dello sportello, chiamando col suo allegro francese di Biella un bisciuar.

Nell'ultima festa del paese egli si avvinazzò tanto, ballonzolò tanto, si arrovellò tanto di vino e di movimento che ritornando a casa voleva costringere tutti coloro, cui incontrava per la strada, a ballare con lui: preti, vecchie, ragazze, padri coscritti. O sia che una villanella riluttante, puntandogli contro il ginocchio, gli abbia dato il gambetto, o sia che lo abbia rovinato, come l'impero romano, la propria mole, fatto sta ed è, che stramazzò per terra e si slogò una coscia. Non se ne adontò per nulla e ricusò di essere portato a casa per la fasciatura; volle che il medico venisse a mettergli la gamba a posto nello stesso tratto di strada, in cui egli era ruzzolato. Sdraiatosi nella polvere rizzò la testa e si addossò ad un paracarro per aspettare comodamente il dottore, e intanto per rendere vieppiùcomoda l'aspettazione si fece recare dall'osteria un altro doppio litro con bicchieri. Beveva e costringeva a bere la moglie e le figliuole accorse e gli altri assistenti, e offriva da bere a tutti i passanti, dicendo che voleva da buon cottimista fare gli onori dello stradone provinciale.

Venuto il medico, non si lasciò toccare da lui, se prima questi non aveva toccato con esso il bicchiere, e quando finalmente gli permise di accingersi alla operazione, pretese a forza che gli applicasse alla gamba slogata alcune doghe di un barile sfasciato, che egli aveva comandato gli recassero da casa.

Guarì completamente, ma la cordiale riconoscenza per la bella cura fattagli dal medico non gli tolse dall'animo un'inconscia invidia che gli era trapelata addosso; un'invidia che si potrebbe chiamare del mestiere, se fosse mestiere quello di dire buffonate.

Non c'era caso che egli ridesse alle spiritose barzellette del medico; questi per sua parte, pur avendo un'indole così risanciona, diventava serio, quando Ambrogione sferrava i suoi lazzi, e nella superiorità della propria educazione ostentava di non avvertirli neppure. Questi rapporti tesi erano gravidi di una sfida, come li giudicò un uomo politico, il farmacista. Infatti nell'osteria e poi nel paese intiero erano nati quasi due partiti pei due contafavole.

La parte più intelligente e la società più fine del paese, le signore, il segretario comunale e il farmacista tenevano pel dottore.

Erane specialmente devoto ammiratore il panattiere Gregorio, il più indefesso, mansueto e silenzioso bevitore del Borgo, quegli che senza giuocare accettava di far parte di qualsiasi partita, in cui vi fosse per posta qualche bibita; tantochéchicchessia entrando nell'osteria, e disagiato a bersi una bottiglia intiera, ne proponeva sicuro la societàa Gregorio, e questi non diceva mai di no; onde gli capitava magari di avere carature in quattro o cinque tavolini; qua per la gazosa, là per la birra, o per il caffè, o pel vino del bottale, o per il nebiolo imbottigliato; ed egli beveva e pagava da per tutto con una flemma e una soddisfazione ammiranda.

Anche i mugnai parteggiavano pel dottore; insomma erano con lui quasi tutti quelli di arte bianca. Invece quelli di arte nera, come il Gran Tommaso carbonaio, Pietro il fuligginoso

fabbro ferraio, il maestro cappellano, ecc. erano partigiani del forte Ambrogione. Dicevano le vecchie dell'Opera Pia che anche il diavolo teneva per lui.

Però nella sua banda egli prediligeva l'organista Protaso e il bel Rolando, che formavano con lui un terzetto musicale. In effetto egli, famoso lavoratore ed ubbriacone, era anche a tempo avanzato vigoroso suonatore di fisarmonica, e si faceva accompagnare appunto dal vecchio organista che conosceva abbastanza bene il flauto, il violino e il contrabasso, e dal giovinetto Rolando che grattava la chitarra con un'aria ispirata. Anzi quest'ultimo pareva il Ganimede di quel Giove.

Il bel Rolando era stato definito dal parroco con proprietà di linguaggio quale scioperato; ma il più mite neologismo degli altri borghigiani lo riteneva per un semplice disimpiegato. Figlio di un particolare (contadino proprietario), aveva fatte le scuole tecniche; ma non si era spinto piùin là, tra per la poca voglia che egli aveva di studiare, e per il desiderio della mamma di averlo attaccato ognora alla gonnella e per la stufaggine, che aveva suo padre, di sprecare i denari a fine di mantenergli i vizi in città.

Nel villaggio, alieno dai lavori di campagna, senza mestiere, egli consumava il tempo bruciando pipate di tabacco da tre soldi, perseguitando e corrompendo le più belle ragazze del villaggio. Molti matrimoni andarono rotti per cagion sua. Esercitava una languidezza imperiosa, irresistibile da gatta morbida e da tenore brigante, teneva sulla testa due ditate spesse di capelli biondi come l'oro, spartiti in metàcome li spartiscono le donne: possedeva un mostaccino rotondo, come nelle maschere da fanciulle, e nelle Sirene da giostra o nelle ballerine per pipe di schiuma: aveva gli occhi grossi, azzurri, di cobalto; la camicia di flanella senza solino gli lasciava libero il collo alto e ben tornito: portava un'elegante cacciatora con bottoni bianchi, orlata di refe rosso. Era un bel vizioso. Persino la nominata Erzegovina, e poscia ribattezzata Krumira, la cortigiana celebre del Borgo, che faceva il servizio di tutte le caserme dei Carabinieri del circuito, sentiva delle debolezze gratuite per lui; ed una volta per amore di lui aveva lasciato bussare invano alla sua porta il deputato capitato in vacanze, quantunque fosse giàstato due volte segretario generale del Ministero di Agricoltura e ministro in predicato.

Quando, per usare una frase tecnica del paese, qualche ragazza alzava il grembiule prima del tempo, lo si attribuiva al bel Rolando e si attribuivano a lui i gettatelli che si trovavano sulla porta della chiesa. Onde una volta il feroce cottimista gli disse: - Mio caro! tu pel bilancio degli esposti costi alla provincia piùche l'avv. Denticis, che noi cottimisti non possiamo andare a trovare, senza mostrargli il gruzzolo dietro la schiena.

Quel satanico fanciullo piaceva, si appoggiava e quasi si maritava al Satana adulto, come la grazia alla forza, l'edera all'olmo.

Ambrogione se ne serviva qualche volta per farsi fare i conti del negozio dei bozzoli, su cui speculava e versavasi come un maroso nei mesi di giugno e di luglio, o per l'affitto delle trebbiatrici, nel cui acquisto si era gettato come un veltro ferito, e per fargli conteggiare i mucchi di ghiaia su cui frodava, e lo retribuiva con gite di piacere e merende. Questa era l'unica occupazione lucrosa, cui attendesse il bel Rolando nel suo ozio geniale. Qualche volta d'inverno coltivava ed enunciava l'idea di raccomandarsi poi al deputato, già segretario generale, e futuro ministro dell'Agricoltura, e domandargli qualche impiego. Ma, sopraggiunto l'autunno, egli si sentiva cosìbene, si gatteggiava cosìtiepidamente nel suo dolce far niente, che non pensava neppure per sogno di andare ad umiliarsi all'on. ex Segretario Generale e promesso Ministro, e preferiva fargli prendere il fresco di fuori, quando questi col portabiglietti pinzo si degnava di bussare all'uscio della Erzegovina poscia Krumira, e nei pochi casi in cui lo lasciava entrare, si divertiva poi a fumare i sigari d'Avana da 24 soldi.

L'organista Protaso, un vecchio sbarbato, vestito di un giubbino nero, corto, lucido, sfuggente, lieve come la fodera di un violino, era servitor devoto di tutti quanti, ma si inchinava premurosamente alla generosità e alla potenza di Ambrogione, ed in una sola parte si riservava ad essere lui stesso intransigente, cioènel non ammettere ballabili moderni, e nel mantenere, come Vangelo del terzetto, un vecchio cartolaro di danzeria del maestro Caronti,che egli aveva

portato da un paesello di montagna, dove aveva fatte le sue prime armi musicali. Quindi néSangue Viennese,néLabbra di fuoco,néFiotto di mussola poterono aver mai l'onore d'entrare nel repertorio musicale di Borgo Grezzo, dove trionfavano continuamente le vispe cantilene dell'antico cartolaro, intitolate: Iride - Cuor contento - La priora di San Sebastiano - Pietrina Michisso, ecc., scritte da quel genio ignoto del maestro Caronti certamente per qualche figliuola di castellano; imperocché ad ogni unto fondo di pagina c'era l'avvertenza: L'illustrissima signora damigella è pregata, oppure degnisi di voltare il foglio. Per somma grazia erano state accettate dall'organista alcune canzoni popolari che Ambrogione aveva raccolte nella sua vita d'impresario anche fuori del Piemonte. Il giovane dottore, quantunque egregio dilettante di canto e pianoforte, non poté mai accordarsi col terzetto, avendo egli avuto delle coraggiose velleità di introdurre a Borgo Grezzo un ballabile di Klein, un altro di Capitani e alcune romanze di Tosti e di Rotoli, e sull'organo della Chiesa il Mefistofele di Boito.

II

I CONTAFROTTOLE

Una sera l'adunanza dell'osteria era al gran completo.

Il salone dietro la cucina, formato da due stanze riunite, in cui alla abbattuta parete divisoria si era sostituito un arco sorretto da un pilastro, era rigurgitante di gente, pareva una fitta piantonaia di uomini clamorosi, come un'assemblea operaia per fondare un magazzino cooperativo, o un comitato elettorale, in cui un candidato pagasse le spese alle sue speranze di consigliere o deputato delle acque.

La Ghita doveva affaccendarsi a voltare i grossi peperoni gialli e rossi; e le fette di polenta, che arrostivano sopra le molle adagiate sulla brace; e a portare litri e doppi litri alle tavolate richiedenti.

Nello scompartimento di destra c'era la tavolata del dottore, il quale quella sera pareva proprio in buona vena d'accettare con Ambrogione la sfida a chi le dicesse piùgrosse. Ambrogione si presentava maestoso quale un fiume nella sua piena. Il dottore aveva giàcomunicato per la millesima volta il suo progetto di una confraternita religiosa, nella cui processione il Gran Tommaso avrebbe fatta la parte di Longino, e Ambrogio quella del buon Ladrone; aveva già narrato in una ultima edizione il suo sogno di una rivista militare che farebbe il Commissario di leva agli impiegati e alle impiegate del Municipio che sarebbero denudati e denudate come coscritti alla visita; aveva già riferito il famoso testamento di Don Coraglia.

- Non ho capito bene - osservò il panattiere mansueto ed inesauribile nel bere ed ascoltare e far ripetere.

- Don Bertrame Coraglia, - ripetéil dottore - dopo avere vissuto da lepido gaudente, aveva voluto mantenersi buffo anche in morte, corbellando il pubblico con un pio teatrale decesso, che accadde, come si ricordava mia nonna, a Trentacelle, nel 1840. Egli era caduto ammalato in uno dei primari alberghi dell'antico capoluogo della nostra provincia; e per farsi trattar bene dall'albergatore e onorare dalla cittadinanza, mandò a chiamare il notaio, a cui dettòun grasso testamento. Con esso nominò erede universale delle sue sostanze il venerando Capitolo metropolitano, e profuse un'immensità di legati pii non dimenticando il padrone dell'albergo, a cui lasciòl'orologio d'oro, néi camerieri che lo assistevano durante l'ultima malattia, ai quali lasciò, in compagnia del padrone, le cedole della sua valigia. Anzi, prima di spirare, ebbe cura di farli chiamare intorno al letto, e loro pronunciò distillando con la solennità dell'Uomo Giusto, che muore nell'ultimo atto di un dramma, un commovente discorso, in cui loro raccomandò la fermezza nella fede cattolica, l'amore di patria e la purezza dei costumi.

I canonici commossi di riconoscenza gli ordinarono un funerale sontuoso di prima classe, durante il quale cantarono colla più sfogata solennità a squarciagola; ma poco dopo dovettero mangiarsi i pugni di pentimento per la voce prodigata e per la cera buttata al diavolo, riconoscendo che le sostanze dell'abate erano una vera burla: zero via zero. L'albergatore trovò di ottone, trovòessere un misero giocattolo da fiera il famoso orologio d'oro; e i camerieri dell'albergo poi, aperta la famosa valigia delle cedole,scopersero che esse non erano già cartelle del Debito pubblico, come essi avevano fermamente creduto, ma cartelle del Debito privato del testatore, cioè cedole di citazione intimate pel ministero d'usciere dietro istanza dei creditori al Don Coraglia, diventato da parecchi anni debitore non solvente.

Il panattiere batté le mani, poi le lasciò cadere congiuntamente sui ginocchi, per atto di grande meraviglia.

Lo stesso Ambrogione si degnòcavallerescamente di tacere alla ripetizione di questa storiella.

Onde il dottore lesse una nuova tacita preghiera negli occhi del panattiere, e, senza pigliar fiato, riprese:

- Voi, Gregorio, volete sapere...

E Gregorio: - Sì... Ma era proprio...

- Ve lo ripeto? L'abate Coraglia era proprio quel desso, che nel confessare dava l'assoluzione a capriccio e secondo le conoscenze. In una sera scura si recò a confessarsi da lui il vecchio Conte. E Don Coraglia distratto gli negò l'assoluzione. Quando il penitente si partì, il prete sporgendosi dal confessionale si avvide di chi si trattava; e gli trottòdietro gridandogli: scusi non l'aveva mica conosciuto... Se vuol tornare, subito ripariamo.

Risero discretamente gli ammiratori del medico, ma il panattiere si prese la testa fra le mani, per non scoppiare dal contento, e parve risoluto di assumere coi suoi monosillabi la parte di leader del partito.

Ambrogione punto di invidia, per non riuscir sopraffatto in quel torneo, cominciòa parlare con voce strepitosa alla sua tavola, ma in modo che la direzione della sua voce e del suo racconto pareva sopratutto rivolta a vincere gli avversari costringendoli a non perderne una sillaba. Disse: - Don Coraglia l'ho conosciuto pur io. Si èconservato fino a settant'anni una capigliatura nera e folta. Usava di una certa pomata, che avrebbe fatto nascere i capelli anche sopra una palla di bigliardo. Un giorno, avendo le dita unte di quella pomata, toccò un sedile di pietra nel giardino. Or bene, il giorno dopo quel sedile era coperto di peli come un velluto...

- Boun!

E Ambrogione senza scomporsi seguitò:

- Del resto, la morte e il testamento di Don Coraglia sono accaduti non nel 1840, ma nel 1849, quando io era all'eroica difesa di Casale. C'erano con me allora tre cannonieri veterani cosìsordi, che quando avevano sparato il cannone, si domandavano l'un l'altro, se aveva preso fuoco: l'a pià fò?

Balzarono gli ah ah! piùcontenti dalle bocche dei suoi abbronziti partigiani, i quali poscia bevettero; e dopo la bevuta, batterono rumorosamente il bicchiere sulla tavola.

Riscaldato, Ambrogione continuòdicendo: - Ciòènulla a petto dei Cinesi, i quali respingono gli attacchi alla baionetta e le scalate date ai loro spalti, gettando della polvere negli occhi...

- Ai gonzi! - interruppe il dottore sentendosi incoraggito dall'approvazione che continuava a scintillare negli occhi al panattiere.

- No, signore! Ai nemici Francesi - continuòimperturbato Ambrogione. - Perchéquei guerrieri vanno alla guerra colle tasche piene di sabbia... Cosa, del resto, facilissima a capirsi... Perchévi sono dei metodi di guerra e di caccia ancora piùsemplici... Un mio amico, guarda-convoglio, mi raccontava che egli prendeva gli orsi comodamente così: metteva in capo al sentiero, per cui essi dovevano passare, un semplice cribro di fili di ferro. Allorché gli orsi si affacciavano a quell'ostacolo, rizzandosi per apporvi le zampe di contro, attraversavano colle unghie i buchi del crivello. Allora il cacciatore appostato dall'altra parte con un piccolo martello ribatteva quelle unghie, ritorcendole gentilmente contro i fili di ferro. Tich tach. Cosìgli orsi rimanevano attaccati al cribro e si potevano portare via belli, vivi e sani.

- Questa èda Barone di Münchhausen! - dissero a un tempo il medico e il segretario comunale.

- Non c'entra nessun calcio nel caffè di Moka rispose Ambrogione. - è un fatto storico... Si tratta dello stesso capo-convoglio, mio grande amico, che venne poi nominato capo stazione a Baltesana. Egli per non interrompere la partita a tarocchi colle guardie doganali, era solito a non presentarsi al passaggio dei treni diretti e collocava sull'uscio dell'ufficio un fantoccio della sua statura, col berretto, e colle cifre del grado. Una volta il vento nell'impeto di un treno celerissimo rovesciò il fantoccio, onde il macchinista, temendo di avere travolto il capo-stazione, fermò la macchina; e si riconobbe...

- Ih! Ih! Ah! Ah!... Uh! Uh! - urlarono tutti.

L'organista, come fosse pagato per dargli l'imbeccata:

- Baltesana è lo stesso paese...

- Lo stesso paese - abboccòAmbrogione - dove c'era quella ragazza magnifica, ma smorfiosa e prepotente, la quale una volta recitava coi dilettanti nella S uor Teresa. Avendo sentito in platea alcuni giovinastri darle la baia, essa benchévestita da monaca, si avanzòrisolutamente sul proscenio, si rivolse al pubblico bestemmiando: “Fate silenzio, brutti diavoli! cri... cco! contacc!” e alzando le anche si diede una patta di dietro.

Un'altra volta, sul loggione, al teatro dei burattini, si lagnò infinitamente d'aver sentito un rumore e un odore cagionato da una scorpacciata di fagiuoli. Per tutta quella sera e per il giorno dopo non cessò mai dal protestare che non si dovevano permettere quelle porcherie, vantando che a lei non era mai accaduta... simile disgrazia.

I giovinotti del paese per punirla di quel vanto, una volta la colsero in un bosco, mentre essa andava per funghi, e con un soffietto, che avevano portato espressamente con loro, la gonfiarono tanto, che essa tornando a casa strombettava per via come una diavolessa!

- E fece... - disse il medico.

Il segretario completò la citazione di Dante.

- Impossibile! Una ragazza ricca, non va sola per funghi... - osservò il panattiere.

- Osate negare ciò che dico io...? Si fece il processo... Fui io testimonio, ché in quei tempi lavoravo pel canale Cavour a Baltesana... Minchioni! Se non li cercano le ragazze ricche, chi andrà a cercar funghi in quel paese!? in cui il più povero pezzente, che si presenti agli usci per amor di Dio, ha per lo meno una ventina di giornate in proprietà tra risaie e marcite.

- Boun!

Le due tavolate rimasero veramente spaventate.

Ambrogione, offeso dai volti increduli, inferocì.

- Ché! Vi prego di credere, che a Baltesana certi contadini pigliano per carità i calzoni di mezzalana dall'Opera pia, e posseggono tenimenti di 200 giornate...

L'osteria tremò... Si guardava dai piùla finestra in modo supplichevole, perchéla si aprisse pel passaggio delle bombe.

L'organista arrischiò:

- Io non stento a credere.

Allora Ambrogione per rimunerarlo:

- Ghita, due litri... e di vino imbottigliato.

L'attenzione degli astanti si tolse volentieri dallo sballone e si riposò sul bel Rolando che aveva staccata dalla parete la chitarra.

Sedutosi sull'angolo della tavola, colle gambe incrociate, teneva la cassa armonica sulle ginocchia e la testa in su a domandare ispirazioni. Il berretto alla marinara, dalla gronda larga di panno azzurro, gli faceva un'aureola celeste; egli era una bella cosa da osservare per la Ghita.

La ostessa guardandolo sentiva sotto le ascelle un calore, un'arsura di abbracciarlo, di avviticchiarselo.

Egli unghiava le corde, e ne cavava lentamente vibrazioni sonore che empievano, rallegravano l'aria e il petto a tutti; rompevano il tanfo e guizzavano nei nervi più pigri. Mentre egli sonava, gli si ingrandivano gli occhi; gli passavano sulla fronte rossori, vergogne di trovarsi un fannullone paesano, e baldanze, desideri di essere un elegante, misterioso giovane, barabba di città: correre come un demone sull'asfalto degli Skating-Ringh, trascinandosi allacciata pei fianchi, intrecciata nelle mani la più bella cocotte di Torino, - e ai balzi della musica, al fragore delle rotelle girare con una gamba in aria, valseggiare con lei, volteggiando fra quelle anime dannate, fra quelle fanciulle vestite di velluto, dal largo cappello peloso, dalla pellegrina, intagli di prete: e poi scivolando, filare dietro il paravento, e scalzarla, premerla lei, così superba e di così alto prezzo pei senatori, e per lui docile al solo prezzo di picchiarla come una cagnolina. Indi gli si ritiravano le vedute pornografiche dalla fronte ed erano sostituite da nobili propositi di andar via a guadagnarsi il pane, e diventare qualche cosa di buono, un bravo ingegnere, disegnatore, capo officina... Questa lanterna magica non solo si vedeva passare sulla fronte del bel Rolando, ma la si sentiva nel suono della sua chitarra.

Il panattiere, ottuso per la musica, profittando di una pausa, aveva cercato di avviare il medico sul tema dei Conciliatori.

- Signor dottore, saràvera la risposta, che Bertolo, l'oste, ha data al Conciliatore di Calciavacca?

- Sì, me lo hanno riferito. Bertolo era stato citato da Rolla il droghiere, che avanzava da lui venti lire per spezie e candele.

Il Conciliatore minacciava l'oste di una condanna coi danni, spese e vacati; quando Berto lo gli osservò placidamente: “Io pagherò le venti lire, che devo a Rolla, quando voi, signor Conciliatore, mi pagherete le trenta lire per quelle due brente di vino...”. Allora il Conciliatore furioso:

“Silenzio! Silenzio! Se no, metto mano in carta libera...”.

- Ah! Ah! Che ridere! Che ridere! - scompisciava il panattiere.

- Ma la piùbuffa - ripigliava il dottore - èla sentenza, che ha pronunziato il nostro macellaio Conciliatore all'ultima udienza. Egli stanco di due litiganti temerari, che non ho bisog no di nominarvi, li licenziò dicendo: “Sentite! aggiustatevi! se no, ve lo giuro su questo santo Vangelo, per Cristo morto, se vi presentate ancora al mio macello, non vi do più una libbra di carne intera. Vi do tutta giunta ed ossi... E non fatemi perdere la testa...”.

- Oh, che ridere! che ridere! - seguitava il panattiere, lacrimando e quasi scompaginandosi dalla contentezza.

- Questo ènulla in paragone del Conciliatore di Baltesana - disse Ambrogione, riafferrando il mazzo lui; - quel Conciliatore, antico furiere in riposo, non essendo stato provvisto di nessun Codice civile dal Procuratore del Re, né dal Comune, si serviva del Codice penale militare, che aveva portato dal reggimento e per questioni di galline o di uno schizzetto di pochi soldi, minacciava condanne alla reclusione, e ai lavori forzati.

Nella festa di Sant'Orsola, le ragazze della Compagnia, essendosi ubbriacate in casa della Priora, messesi in fila sul ballatoio, improvvisarono una fontana nel cortile con grande scandalo e bagnatura dei musicanti che suonavano di sotto.

Il Conciliatore, fattele citare, le condannòalla fucilazione nella schiena previa degradazione.

Trrr... um.

Il bel Rolando, con una strappata delle sei corde a un tempo, tagliò degnamente la frottola di Ambrogione, in modo che tutti l'applaudirono ridendo come matti; quindi da quell'arrabbiato accordo, egli si sollevò e li sollevò ad una cavata dolcissima, mentre dalla testa pareva che gli svaporasse un inno oraziano in lode di Cesare Augusto.

III

LA SERENATA

Il dottore si alzò per avvicinarsegli e fargli la corte; gli cavò il berretto; e gli mise in testa il suo cappello nero con un'ala alzata alla spagnuola, fíggendogli nel nastro un cucchiaino di legno.

- Ecco la studiantina, cioè la cucchiaina di Siviglia o Salamanca.

Ambrogione guardòil suo ganimede con un occhio intenerito, come Saulle dopo una doccia di arpa davidica. Stette un po' sovra pensieri di gelosia e di dispetto, come se con la parola Salamanca avessero satireggiato il suo protetto per mancanza di sale in zucca; e poi comandògiulivamente:

- Protaso, lesto, correte a prendere il vostro violino, o il vostro contrabbasso, e poi passate a casa mia a prendermi la fisarmonica.

Il vecchio organista curvòla testa, che rassomigliava ad un'urna da tabacco, allargòle braccia, strinse le gambe, divergendo i piedi; e stava apparecchiato a fare qualche osservazione con un inchino.

Ma Ambrogione non gliene lasciò il tempo.

- O andate, o vi... - e gli mostrò una pedata.

Protaso fece una giravolta sul suo inchino, mentre le falde del farsetto corto e leggero gli si alzavano di dietro, quasi per ricevere degnamente ciò che gli era stato promesso. Quindi, tutto d'un pezzo, mantenendo la curva e le braccia larghe, uscì dall'osteria.

Traversando la corte ardì, per celia, di tentennare sulla vetrata, ma il cottimista lo fece scappare, urlando:

- Fate presto, o vengo a spiantarvi la casa e voi vi spolpo... voi...!

Profittando dell'assenza dell'organista il dottore aveva fatto provare qualche accordo al bel Rolando, e lo incamminò ad accompagnarlo nella romanza del Tosti: Vorrei morir!

Ambrogione si degnò di lasciarlo cantare, e alla fine della romanza lo complimentò.

- Non siete un minchione.

Intanto l'eco di quei patetici vorrei morir gli faceva attraversare il cervello da una strana, benché ancora indistinta idea.

Non ritardò a ritornare l'organista cogli strumenti.

Ambrogione, scelto a coadiutore il Gran Tommaso, lo trascinò pel colletto nello stanzone superiore a stanare una spinetta, che posava le gambe zoppe fra le cipolle e da parecchi anni, cioèdalla morte dello zio prete che l'aveva lasciata in eredità alla prole nascitura della Ghita, non era stata più sonata da altri, che dal gatto allorché passeggiava sulla tastiera.

Scaricato giù quel vecchio mobile, non ostante le opposizioni dell'ostessa, Ambrogione costrinse il medico a suonarlo. E il dottore, mezzo brillo dal vino e dalla buona luna di quella sera, accettò e tempestò una polka di Edoardo Strauss Bahn Frei (Fate largo). Pareva martellasse sui vetri. Ciònondimeno il bel Rolando, deposta la chitarra, aggavignòla Ghita, e la fece ballonzolare, abballottandola ed accantonandola di tanto in tanto in un angolo contro alla scopa, mentre essa lo stringeva, pur riluttando con le grida.

L'organista per ristabilire l'ordine, propose ed allestì, che si ripassasse in quartetto la famosa danzeria del maestro Caronti.

Si accondiscese; ma prima di tutto il cottimista ordinò che si bevessero da tutti insieme altri quattro litri.

Il panattiere disse che accettava, ma che voleva entrare per sua parte nel conto:

- Chi mette bocchino, metta quattrino.

- Chi parla di pagare, quando comando io?... E se qualcheduno si muove per uscire, piglio la falcetta e gli taglio le gambe.

- Comanderai, quando avrà finito di comandare Ambrogione - disse l'organista pro bono pacis e per proprio vantaggio.

- A questo patto accetto - si acquietò Gregorio.

Dopo mezz'ora di accordature innaffiate dal nero vino di Freisa, il quartetto si poté dire montato.

Si suonò la Perseveranza,scottish; e poi il Cane di guardia,marcia in cui ad ogni tanto i sonatori si fermavano ad abbaiare: Bau! Bau!

Ciò elettrizzò l'osteria; e Gregorio entusiasmato ordinò per suo conto sette litri.

Nell'emozione di versare egli stesso il vino, lasciòcadere per terra una bottiglia, che venne prosciugata dal pavimento. Ma gli altri sei litri se li bevettero i congregati, senza perderne una goccia. Oltre l'intiero quaderno del maestro Caronti, si suonòe si cantòla Biondina in gondoletta - Cò sto caldo, cò sto caldo, insima ai monti - La fioraia di Firenze,cavallo di parata del bel Rolando - S muova i fieuj d'Gianduja - e i Bougianen an dio di Brofferio.

Il bel Rolando uscì a dire:

- C'è una bella luna... Dovremmo andare a fare delle serenate.

Rosina vieni abbasso

è un'ora che son qui,

Già la luna sen va a spasso

E succede chiaro il dì.

- Indispettito il padre di Rosina… - continuò con voce da tiranno il dottore...

- Ma io ho sete - conchiuse Ambrogione: - Ghita porta dei peperoni, del formaggio e mezza brenta di vino... Ho sete, ho fame... Spazzacamino...

Quasi tutti assaggiarono il formaggio pro forma,e solo per rendersi piùabili a bere. Alcuni non poterono mandar giù un boccone. Solo Protaso e Gregorio ne fecero un buon striscio.

- Cantiamo... La serva va in cantina.. E il prete...

- Auff... Andiamo a fare la serenata... Non si resiste piùqua dentro - esclamòil bel Rolando.

Rosina vieni abbasso

è un'ora che son qui...

- Andiamo! - concesse Ambrogione - ma si portino con noi i viveri.

Uscìnel cortile; sollevòuna carrettella di sotto la travata, vi aggiogòil carbonaio e il fabbroferraio. Vi caricòla spinetta, un canestro di bottiglie, un altro di vivande, una mezza tinozza di vino... Allons! marchons - Partons pour la gloire et pour la Syrie.

Il denso silenzio campagnuolo era rotto da quel carriaggio di briaconi notturni.

Tutti si guardavano le pance illuminate dal chiarore della luna.

Arrivati sul sagrato, videro la piazza colma, bianca, di quell'uniforme luce lunare, a cui faceva da nera sponda l'ombra dei tetti e dei balconi.

Ambrogione si fermò a pensare, inorecchito come presentisse dell'acqua, e poi disse: - Io non ho paura, so nuotare.

In un baleno si spogliò; e tenendo in bocca il fagotto degli abiti, traversò la piazza a nuoto asciutto.

Il seguito col carro gli corse dietro come a Faraone nel Mar Rosso. Infatti il grido del dottore fu: - Viva Mosè in Egitto!

Raggiuntolo dall'altra parte, il bel Rolando si permise di dirgli: - Signor Ambrogione, sarà meglio andare a casa...

- Vai tu, piccirillo!... Va' a pigliare la poppa...

Con qualche fatica il gigante cotto riuscì a rivestirsi, dopo aver provato invano a mettersi uno stivale in testa. Trasse in disparte il bel Rolando, gli pose in mano una chiave, e gli sussurrò: - Va' tu con mia moglie.

Al giovinotto la voglia di profittarne fu cacciata dalla certezza che l'indomani sarebbe stato pugnalato.

Balbettò:

- No... no... grazie!

- https://www.wendangku.net/doc/223998805.html,e? Grazie!...

Il bel Rolando si sentì livido da una guardata velenosa nel collo...

- Ho sete! - ricominciò Ambrogione... E faceva stappare delle bottiglie...

Era il tocco dopo la mezzanotte; al rumore dei tappi che saltavano via, si unirono i ventiquattro rintocchi dei morti. Passò per la testa di Ambrogione più chiara una torbida idea.

Il medico disse:

- Adunque facciamola questa serenata.

Allora tutti si volsero verso il balcone della stanza, dove dormiva la figliuola del Sindaco.

Il medico salì sul carretto a martellare la spinetta... Ambrogione allargava e rinchiudeva poderosamente il mantice della fisarmonica, l'organista inviperiva sul violino, il bel Rolando faceva vibrare mestamente la chitarra. Tutti cantavano il coro della Mascherata dei quaranta pagliacci, che si adattava da per tutto:

E la bella Borghezzese

Sarà sempre il mio sospir.

- Adesso andiamo in barca - sentenziò Ambrogione, come un lucido dirizzone l'avesse preso; e avviò i due bipedi aggiogati al carretto sulla strada che conduce al torrente Borghera.

Quando si trovarono un po' dilungati dalla piazza, si accorsero che il dottore ed i suoi partitanti si erano squagliati.

- Vigliacchi! - borbottò Ambrogione... - Ma, tanto d'avanzato!... Berremo tutto noi.

- è vero! - approvò l'organista, tremolando fra la paura e il freddo.

Quando giunsero in riva alla Borghera, Ambrogione sventròcome un bombardone un interminabile euhpp! per svegliare il barcaiuolo nella chiatta.

Impaziente, assaltò egli stesso una barca e snodò la fune che la legava ad un piantone.

Quindi invitò i suoi seguaci ad accompagnarlo in barca.

Vedendo che il barcaiuolo, svegliatosi, si era messo al governo del timone, molti si affidarono di accettare l'invito.

Ma l'organista rifiutossi.

Ambrogione lo scosse e ordinò ai bipedi del carretto:

- Bipedi, gettatelo nell'acqua.

L'organista s'inginocchiò sul ghiareto.

Pareva una scena di sacrifizio umano. Dove l'onda era crespa, la luna faceva succedere un movimento di carta dorata, e inargentata; e dove l'acqua spaziava liscia, si appozzavano splendori. Qua e làguizzavano larghi nereggiamenti, come schizzi immani di seppia. Nevicavano i fili d'erba sulla riva; la ghiaia imbruniva nei contorni morbidi dell'ombra, e mandava qua e là scintillamenti ossei.

Ambrogione si mise a ridere, e si contentòche l'organista rimanesse a terra, purchésuonasse il violino in ginocchione.

La brigata in barca si versò da bere; e poi cominciò a cantare e a suonare.

Dalla sponda l'organista la accompagnava raspando il violino, genuflesso come un condannato a morte.

La musica sull'acqua faceva un effetto magico; diventava piùfina, piùtrasparente, piùgodibile...

Pareva trasmessa per mezzo del telefono da un paradiso incarcerato nel centro della terra.

La ripercussione delle onde sonore sulle onde liquide era un incanto... Le fantasie logore dei poeti avrebbero ridetto che i venti, i quali passeggiano sui fiumi, sostavano innamorati sull'ali ad ascoltare, e i pesci boccheggiavano le armonie a fior d'acqua.

Ambrogione spicciativo, brutale nei suoi capricci, quietò appena cinque minuti in barca, poi fissando un nero cespo di ontani sulla riva lontana, ordinòche si ritornasse a terra. Làannunziò solennemente:

- Andiamo a fare una serenata ai morti. Poi verrete a casa mia a mangiare il cardo con la salsa calda e i tartufi.

Nessuno gli rispose di sì.

Anzi l'organista, assunto un coraggio apostolico, da uomo di chiesa con annesso stipendio, disse: - No... Non va bene... è una profanazione... I nostri vecchi...

Ma Ambrogione minacciò: - Vi dico che verrete con me, dovessi spingervi innanzi a colpi di revolver.

Protaso, al pari del resto della brigata, ammutolì. Tutti camminavano, come la biscia all'incanto. L'organista non vedeva più splendere la luna, fuorché sulla punta delle sue scarpe.

Ruminava in mente il modo di evadersi: pensava e ripeteva: - Ah! se fossi rimasto a casa, chiuso col chiavistello...

Ritrovandosi sulla piazza consideròche poteva con una stranezza minore evitare la maggior pazzia di Ambrogione, e gli propose: - Se andassimo a far la serenata sulla punta del campanile!

- L'idea non è cattiva...

- Io so dove sta la chiave... è qui.

- Pigliala subito.

L'organista, tosto levato un mattone da una buca presso la finestra del campanaio, vi trovò la chiave del campanile. Ambrogione si caricò sulle spalle la cesta colle bottiglie rimaste, e cacciandosi innanzi il bel Rolando e l'organista cogli strumenti, salì poderosamente le numerose e ripide scale legate l'una in vetta all'altra nell'interno della torre. Egli era cosìrigoglioso che pareva il succhio sanguigno di quell'albero in muratura. Giunti nel castello delle campane si affacciarono al firmamento. Che dominazione!

Alcuni cortili di case, che da basso figurano in lontananza fra loro, qui parevano essere proprio riuniti sotto gli sputi dal campanile.

Ambrogione guardò fieramente nel cortile di sua casa, quasi schiodando colle pupille le impannate della stanza coniugale. Era scuro; sua moglie dormiva... Egli rapidamente si tranquillizzò.

- Ho sete... Come si deve bere bene qui sopra in excelsis Deo!... Ci deve essere ancora nel canestro un'ala di pollo... Adesso... soniamo...

Le ondate sonore si diffondevano spaziose, quasi arricchivano di forza i lombi dei suonatori; e ad un tempo un senso di benessere igienico, estetico, alleggeriva, sollevava, rassicurava tutti.

Finita la prima suonata, l'organista si accorse che gli altri della banda non lo avevano seguito.

Ambrogione guardò in giù, e vide ch'era sparito anche il carretto colla spinetta.

- Manigoldi!

Poi si ritornò a suonare...

Un ampio fremito ondeggiava intorno. Sbucòun gufo spaventato e strisciòcome un velluto ombroso sulla testa di Ambrogione.

- Alt! - disse egli con voce da capitano di nave. Quindi con entusiasmo d'oratore ubbriaco: - Andiamo al cimitero.

L'organista, scendendo per le scale, avrebbe voluto rompersi il collo, pur di non seguire Ambrogione nella sacrilega impresa.

Ma, a farlo apposta, si trovò in istrada saldo e netto sulle gambe.

Si ricordò un'altra volta, che gli altri si erano discostati; e questa solitudine gli aumentò il terrore.

Ambrogione se lo cacciava dinanzi a piattonate nella schiena e a pizzicotti nei fianchi. Osava persino minacciarlo barzellettando: - Se non trottate, vi rovescio addosso il campanile, e vi... schiaccio...

Il bel Rolando andava di per sé di buon portante.

Quando si fu fuori del paese, all'organista si piegarono le gambe. Camminava ginocchino come un prigioniero sfinito.

Comparve il viale del camposanto.

Protaso assalito da un brivido non trovòaltra ripresa fuorchéaddossarsi ad un albero colla testa penzoloni.

Ambrogione vincendo la ripugnanza di accostarsegli, si mosse ferocemente per ghermirlo, e staccarlo dall'albero:

- Troio!

L'organista si difese col sonare il violino, traccheggiando in tutta la persona.

Ambrogione ne fu disarmato, colpito da un'idea.

- Pitocco! Sta' pure lì; e suona. Ma non cessa dal suonare... se no, ti fulmino con la pistola.

Protaso seguitò a suonare, come l'avesse morso la tarantola. Sfregacciava con l'archetto nell'impugnatura, e quando arrivava le corde sul cavo armonico, mandava raspature gemebonde, sdruccioli, guizzi di note che facevano rizzare i capelli: sonava ripiegando a pancia, come un soffietto, rompendosi, curvandosi, aprendosi come un compasso; si alzava, si torceva come uno spirale, traboccava in singulti, come se recesse secco sopra un invisibile leggio.

Ambrogione e il bel Rolando continuarono il cammino da soli.

Ad un tratto quest'ultimo si sedette sopra un paracarro.

- Che? anche tu?... ti ballano i morticini davanti li occhi?... O temi che venga Caterina dalla Maternità di Torino a tirarti i piedi, o la bionda Nina al cimitero di Vercelli?... Piangi?... Devi suonare, suonare... su, via, alzati! dico... Veniamo ai voti fra voi due. Che dici? Bestia! pari e dispari... Non ti muovi? Sei freddo come un marmo? Devo seppellirti...? Su, gratta la chitarra...

Il bel Rolando con la mano tronca, febbrile, trovò i1 coraggio di straziare un accordo.

Ambrogione tranquillossi.

- Bravo! stai lì... lascerò dietro due colonne vive, di musicanti, dico musi... cani... Fermi...! Olà!

Quindi con l'impeto di un masnadiero e collo sgarbo di un orso prese d'assalto il muro del cimitero.

Ritto sulla vetta, quel truce gradasso dominava nella notte.

Dentro il camposanto scintillavano le croci intagliate nel chiarore lunare, quasi armi apparecchiate per combatterlo.

Egli allargòspaventosamente la fisarmonica con un muggito interminabile, come se aprisse un abisso di sonoritàsotto il pedale di un organo stregato. Quindi la rinchiuse con un soffio da smorzare la luna e l'intelligenza. Poi si diede ad agitarla, divincolarla con una frequenza di movimenti di su, di giù, nel mezzo, cagionando tremolii concentrici, cicalecci di vecchie sdentate, civetterie rabbiose, sospiri strozzati, lordure musicali, stomachevoli. In un punto si sentìpassare un cane vicino all'orecchio, e poi sollevarsi un cespo nero dentro il camposanto.

Saltò a capo fitto nell'agone.

Era una mischia orribile. Aveva contro di sétutti i morti... C'erano le nonne che lo minacciavano con le rocche; tutti i parroci, di cui si legge l'iscrizione nel corridoio della parrocchia, lo allontanavano coll'aspersorio. Don Beltrame Coraglia gli buttava gocce roventi... Contadini, spose di duecento anni fa, gli si avventarono contro colle unghie ricurve... Gli

innocenti tentavano di fustigarlo colle verghe. Si chiudevano vecchie tabacchiere; sentìscricchiolare il pettine della sua povera mamma sotto la pesta sanguinosa.

Scoppiavano fragorosamente i cadaveri nelle tombe... Colonne di fuoco gli ballonzolavano attorno, ed egli, orribile clown funereo, combatteva contro tutti col soffio della fisarmonica.

Correva, rinculava, avanzavasi all'impazzata, spingendo, ritraendo, agitando lo strumento, come dovesse purgare ogni angolo col vento e collo strazio della sua musica.

Ma fu sopraffatto... Gli furono addosso le conocchie, gli aspersori, le unghie... lo ardevano i fuochi... lo strozzava il fetore, lo impacciavano le vesti, lo impauriva, assordava il fragore tumultuante degli scoppi cadaverici... tutto lo toccava, lo forava, lo opprimeva... Sentìsotto le piante il petto tenero di un bambino mortogli nelle fasce. Balzò in aria, e si scatenò verso il muricciuolo. Ne guadagnò la cima, lasciandovi l'impronta di due guanti sanguigni. Ululava, ululava cosìtremendamente, che i boari levatisi alle due antimeridiane per dare il fieno nelle stalle, recitarono un De profundis.

Nessuno seppe precisare quanto egli abbia corso. Lo si poté congetturare il giorno dopo, quando si trovò l'impugnatura della fisarmonica dentro il cimitero e la carta rossa del mantice a un miglio di distanza, e un vaccaro scoperse poi le linguette e le molle d'acciaio, e i bottoni di porcellana sotto il fogliame in un bosco a un altro mezzo miglio di lontananza. Egli fu rinvenuto al mattino sull'orlo di un fosso, coi calzoni spalmati di fango, la giacca a brandelli, il petto scoperto, scalfitto e intriso d'erba fra la neraggine irsuta della pelle, la faccia chiazzata e logora come invecchiata, la schiuma alla bocca, gli occhi lividi e ingigantiti, i capelli pesti e insafardati di letame, ma tuttavia con un anelito da Mongibello.

L'organista venne immediatamente licenziato con un motivato verbale del Consiglio comunale e della Fabbriceria della parrocchia, e dovette risalire in un paesello di montagna per raccattarvi polenta e castagne tanto da poter campacchiare senza la sicurezza di scoprire un altro tesoretto musicale del maestro Caronti.

Stavolta anche il bel Rolando fu proprio costretto a sloggiare dal suo nido; ossia venne esiliato dal paese, come ne ragionano le vecchie, quando fanno il pane al forno.

I maldicenti invidiosi suppongono, che egli faccia da forza armata e protettrice a una famosa mondana d'ambasciatori. Invece i suoi parenti annunziano (ed è la verità) che, dopo avere lavorato al Gottardo èdisegnatore in un'officina a Londra, e si fa onore e manda giùbuone notizie con vaglia internazionali.

Perciòla compagnia del Santo Cordone assicura che egli ritorneràpresto in paese per erigervi una nuova cappella in suffragio delle Anime.

Il dottore dovette penare per guarire Ambrogione, molto più che non abbia faticato allora, quando il camallo si era rotta una gamba sullo stradone. Non potendo il grosso cottimista pei suoi interessi e per la famiglia abbandonare il paese, sentìcon molta amarezza sopratutto per riguardo alla moglie e alle sue creature una terribile notificazione fattagli dal Parroco: “Ambrogione, siete irregolare! Siete incorso nella scomunica maggiore!”. Per farsela togliere, il cottimista spinto dalla moglie, egli già così fiero, accettò la penitenza canonica di girare a porte chiuse quattro volte intorno all'altare, come un ciuco stangato e ricevette poi veramente, dal Prevosto, parecchie bastonate sulla testa e sulle spalle con accompagnamento di parole latine ed acqua benedetta.

Il suo personone di orso domato soffrì un gran ribasso; non frequenta quasi più l'osteria, dove il dottore per un po' di tempo imperòesclusivamente, e poi scadde anche lui di moda essendosi sbandata anche la sua clientela dei frottolisti.

Appena si parla di musica e di morti, al povero Ambrogione si imbrusca e si intenebra la faccia.

Giovanni Faldella

di Carlo Rolli

[Questo saggio di Rolfi costituiva la Prefazione all'edizione Perino, Roma 1884, di Una serenata ai morti.]

Nel 1873, i pacifici lettori della “Gazzetta piemontese” di Torino furono repentinamente scossi da una prosa singolare, dagli atteggiamenti stupefacenti dai paragoni inaspettati, seminata di piemontesismi, piena zeppa di parole disusate, per le quali occorreva il Vade Mecum o la stella polare del Glossario, a fine di poter tirare avanti nella lettura; una prosa mossa da una fresca vena di allegria, ma rude come una ventata, come un colpo di doccia. Vi assurgevano periodi di questa fatta: “Le montagne del Tirolo paiono morbide, minchione, così soffici che gli an gioli non s'ammaccherebbero le costole cascandoci su...”.

“Le case di Monaco sono pompose verniciate ad olio e paffute, tanto che faresti forcella delle tue dita alle loro gote, hanno vetri lucentissimi e convessi, forse occhiali applicati alle finestre...”.

Davano il mal di testa, l'incapacciatura, l'incontro di certe espressioni, come imbucatarsi, romio, abbicarsi, galloria, poccioso, far tarisca e simili, e l'incontro di certe frasi locali come questa applicata alle Kellerine di Monaco: “dimoranti fra Se ttimo e Brandizzo in punto di bellezza” per significare un termine di mezzo, ossia né belle, né brutte.

Tali frasi e periodi spiccavano come addentellati di nuove costruzioni strane fra la prosa politica, economica, commerciale, bancaria, che l'on. deputat o C.F., direttore della “Gazzetta” in quell'epoca, ammanniva alla tiepida e giulebbata beatitudine de' suoi agiatissimi lettori. Onde questi allo scattare battagliero di quello scrivere nuovo, sussultarono indignati come gatti scottati da un piatto traditore; e fra essi vi fu perfino chi disdisse l'abbonamento al giornale! Ma, per converso, se ciò succedeva ai vecchioni insofferenti di ogni nuovo tentativo letterario, ?nel frutto bizzarro, aspro ma tonico, morsero i giovani con entusiasmo, ristucchi quali erano dall'eterno annaspare delle frasi fatte, convenzionali, senili, piatte, e dei motti proverbiali esauriti, a cui soltanto si riconosceva il diritto ufficiale di adagiarsi in una prosa onesta, degna di cresima, assoluzione ed altri sacramenti.

Quegli articoli rivoluzionari, che sorgevano a battaglia nell'antico giornale del Piemonte, intitolavansi pittoricamente: Una gita a Vienna col lapis,ed erano firmati Giovanni Faldella, nome codesto noto allora solo a pochi giovani caldi d'ispirazioni letterarie in più ossigenato e libero ambiente, ed ai frequentatori della societàDante Alighieri,istituitasi qualche anno prima in Torino, ed incubatrice avventurata di nuove e più spiccate individualità artistiche.

La gita a Vienna col lapis terminava con una mossa originale; cioècon la seguente autobibliografia che i vecchi lettori della “Gazzetta piemontese” dovettero giudicare il colmo dell'impudenza letteraria.

“Queste furono le mie note a lapis, che io ebbi la debolezza di comunicare al pubblico.

“Ed esso che cosa ne dirà?

“Niente ?perché il pubblico non legge mai la prima stampa di un nome nuovo: onde tanto farebbe riempirla di parole estratte a sorte da un cappello. Quindi per questa volta sono costretto a farmela da me stesso la bibliografia. Eccola:

“Vocaboli del Trecento, del Cinquecento, della parlata toscana e piemontesismi: sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone: tormentato il dizionario come un cadavere, con la disperazione di dargli vita mediante il canto, il pianoforte, la elettricità e il reobarbaro...

“Così seguiterò finché avrò carta e fiato; tale è il mio stile, come venne ridotto dal mondo piccino e dai libri grossi”.

Ma per rendere evidenti i pregi di tale opera, che pubblicata poco dopo in volume, risollevòd'un tratto piùvibrate antipatie e simpatie, basti citare quanto ne scrisse allora nel “Secolo” di Milano il buon vecchio Eugenio Camerini; ed una lettera diretta al Faldella da Giosuè Carducci, lettera che venne pubblicata nelle “Serate italiane” del Molineri nell'aprile del 1874 Camerini scriveva:

“I Reisebilder di Giovanni Faldella non hanno certamente i pregi di quelli di Enrico Heine, ma una certa aria di parentela che attrae. V'èil sentimento della natura, l'acume di penetrare nel cuore degli uomini, la finezza di osservare i costumi e la maestria d'esprimere quanto l'intelletto vede e l'anima sente. Di una gita all'esposizione di Vienna ha fatto un libro che non spiacerebbe a Sterne. Egli ha una tavolozza ricchissima e non ha letto solamente il dizionario del Fanfani, come alcuno consigliava, ma ha studiato i buoni autori e specialmente i Toscani, tra i quali ha invidiabile disinvoltura, e ha saputo appropriarsene il buono senza cadere come altri nell'idioma

Che pria li padri e le madri trastulla.

“Altri riducono la lingua toscana al gergo delle bambinaie, al pappo e al dindi come diceva Dante”.

Ed il Carducci:

“Mio signore. La ringrazio (e chiedo scusa se tardo) della Gita a Vienna; dono suo carissimo; che ho letto con tanto piacere e dato a leggere a qualche amico giovane.

“S'io non m'inganno, Ella ha da natura la potenza di rappresentare con verità ed efficacia; ha dalla stessa sua potenza il sentimento ed il giudizio (che gli impotenti non hanno) del come, a riuscir poi bene in effetto, ci vuole meditazione e studio e fatica vera di applicazione su certi libri che non son poi di leggera lettura...: ha dallo studio assai virtù e qualche difetto.

“Io non condanno la mescolanza dei piemontesismi coi toscanesimi, io credo con Dante e con i veri filologi e coi retorici veri che nel fondo dei dialetti, chi sappia cercarlo, trova l'accento e il colorito della gran lingua italiana popolare e classica.

“Ma Ella ha (dolce e invidiabile colpa) difetti di giovane; aggruppa, condensa, epigrammeggia un po' troppo: certe sue pagine paiono cataloghi di bei motti, o di eleganze classiche, o di ardiri popolareschi. Ma molte altre sono miniate, disegnate, scolpite, tornite, finite come io vorrei fosse sempre la immaginosa e giovenil prosa italiana. A ogni modo, ove Ella anche, a parer mio, pecca, pecca per altro sempre da buon italiano: che è molto bene...

“Coraggio dunque e avanti...

“E voi, giovani cari, sarete bravi, buoni, liberi e onesti. Seguiti a meditare, a osservare, a studiare, caro signore: e scriva non moltissimo, e, scrivendo, faccia un po' più di aria fra le sue parole...”.

Questi giudizi autorevoli come nessun altro, e meritati, devono avere largamente compensato il Faldella della critica severa, acerba, non sempre spassionata che gli mossero in tempi diversi parecchi giornali umoristici, il celebre grammatico piemontese abate Perosino nel giornale scolastico “Il Baretti” ed altri giornalisti, più o meno sacerdotali, in giornaletti di provincia.

Il caso occorso a Giovanni Faldella coi lettori della “Gazzetta piemontese”, doveva rinnovellarsi, l'anno appresso, con quelli del “Fanfulla”.

Nel 1874 appunto, il giovane scrittore mandava al giornale romano i suoi nuovi Reisebilder, cioè quelli di Geromino sindaco di Monticella: e li intitolava amenamente con un motto proverbiale Viaggio a Roma senza vedere il papa. Lavoro questo inzuppato di sano umorismo italiano, e ricco di osservazioni finissime, e salienti nella festevolezza inarrivabile e scoppiettante delle frasi.

Esso piacque, segnatamente alla clientela maschia del giornale; ed eguale accoglienza ottenevano le caratteristiche corrispondenze che egli, in quel torno di tempo, mandava da Torino

al “Fanfulla” stesso firmandole Pofere Maurizie: onde fu con frasi mirifiche che di lì a poco la direzione del giornale dava l'annunzio della prossima pubblicazione di un nuovo lavoro del Faldella, Un serpe. Storielle in giro,strombe ttando che d'allora in poi l'appendice del “Fanfulla” si sarebbe innalzata ad altezze vertiginose ed inesplorate.

Ma contrariamente ad ogni previsione, dopo tre sole appendici il romanzo rimase in asso;

e dal giornale, per necessaria logica di fatti, scomparivano simultaneamente le corrispondenze di Pofere Maurizie, a cui succedeva, nella carica, l'avv. Vitale, che assumeva il pseudonimo foscoliano di Jacopo.

Quel cambiamento a vista era successo per cagione di talune lettrici del “Fanfulla”, delicate oltre la misura, e troppo use alla proverbiale eleganza di Fantasio, al discreto pettegolezzo parigino di Folchetto, alle riguardose scollacciature di Neera, e ai chlichés concernenti una mezza dozzina di signore della haute che, colle loro acconciature e cogli abiti trinati, vellutati, profumati, e tagliati da Wort o dalla Tua, ritornavano, regolarmente come le fasi della luna, a rimpolpettare la rubrica conservatrice intitolata High life. Siffatte lettrici del “Fanfulla” che pure avevano sopportata la gioiosa meraviglia del sindaco Geromino nel corpo del giornale, protestarono poi, strillarono contro il Serpe in appendice: protestarono, strillarono contro quella insolente freschezza di salute paesana, contro quel gorgoglìo insolito di frasi audaci, senza leccature melliflue.

Poverette!

Battistina, un bel pezzo saldo di ragazza fiorente, dalle guance colorite come una mela appiuola, esuberante di salute e di letizia; il medico Giannozzi, suo padre, devoto adoratore del bollito cotto a punto, che tirava via fra la gaiezza provinciale del paesaggio monferrino, cavalcando la sua brava mula, detta la Giggia, dall'allegra sonagliera, urtavano, sconquassavano troppo i loro sentimenti di eleganza convenzionale, il romanticismo sciroppato del loro cuoricino: onde erano parate a gridare shocking! come le zitellone inglesi.

E la direzione piegavasi ossequente alla gentile volontàfemminea, alla vezzosa e profumata turba di leggitrici, onde onoravasi il giornale cavaliere.

In seguito, allorchéad un redattore del “Fanfulla” accadde di raccattare, nel compartimento di un carrozzone di ferrovia, un numero del “Caffaro” che recava in appendice un bozzetto del Faldella, quel redattore si divertì, per sfoggio di umorismo, a cincischiarne alcuni monconi di periodi barbaramente. Allora l'antico Pofere Maurizie, giustamente irritato di quell'operazione, ripicchiò a dovere sulla “Gazzetta piemontese letteraria” il crudo umorista che non rispose più colpo.

Nel frattempo, il Faldella, disgustatosi della letteratura giornalistica, in un momento di umor nero, accettò l'invito che gli veniva fatto di riprendere l'avvocatura, come collaboratore in uno dei primari uffici vercellesi di cause civili. E per un mesetto egli allora disputò davanti al tribunale civile di Vercelli; disputòdi sortumi d'acqua, di vizi redibitori, e di separazioni coniugali, comprimendo le aspirazioni artistiche turbinose che gli avvampavano sempre per la mente feconda; ma non passògran tempo che egli se ne ritornòal villaggio natio, nemico definitivo dell'avvocatura. Un chierico con vocazioni secolaresche che butta il collare alle ortiche, un prigioniero politico, che saluta coi liberi tacchi il selciato della patria libera, sono immagini sbiadite per rappresentare la felicitàdel bozzettista, che ha dato addio ai codici ed alla toga, riprendendo gli antichi amori artistici.

Imperocché non era stato nella “Gazzetta piemontese” o nel “Fanfulla” che egli aveva iniziate le sue prime avvisaglie artistiche e i suoi primi studi letterari.

Nel 1865,allorchéera studente di legge all'universitàdi Torino, aveva cominciato a pubblicare nel “Novelliere della Domenica” del Pietracqua un suo discorsetto: La festa di Dante, estratto da un imparaticcio di commedia inedita, poichéegli in quell'epoca andava scrivendo commedie e poesie italiane e piemontesi che riservava agli amici. Nel 1868,conseguita la laurea, si era inscritto nell'ufficio dell'avvocato deputato Luigi Ferraris, che poi divenne ministro

dell'Interno, sindaco di Torino, conte, senatore ecc. Ma in quello studio, mentre sfiorava con parsimonia qualche fascicolo di liti, si regalava sovratutto colla lettura di libri di filosofia, di storia e curiositàgiuridiche, scartabellandovi con un che d'intuizione dell'avvenire gli atti del Parlamento.

Nel principio del 1869egli, in unione coll'avvocato Muggio, con l'ingegnere Mora, e col prof. Coggiola, fondava in Torino un giornale letterario: “Il Velocipede, Gazzettino del giovane popolo”. Il quale sia nella forma, sia nell'indole, mostrava apert amente di procedere in retta linea dal “Dagherotipo”, il giornale brofferiano del 1840.

Giovanni Faldella, in omaggio al titolo d'attualità, onde aveva decorato quel suo foglio, vi assunse il meteorico pseudonimo di Spartivento; e a malgrado dell'audacia di quel battesimo, vi svolse una prosa sempliciona a contorni ristretti, piuttosto secca, puristica e giustiana; poiché del Giusti egli era assai nutrito, e, scrivendo, non lasciava per anco intieramente libero adito alle originalità della sua mente. Ed il Mora, il quale ora è un fortunato costruttore di case e di teatri in Roma nuova, dove informa con venustàplastica i suoi ideali artistici, vi pubblicava contemporaneamente briose spumeggiature carnevalesche e la Dinamica del Velocipede, curiosissimo lavoro, testo dei velocipedisti.

Il “Velocipede” dilettò per qualche tempo i buoni torinesi che si compiacevano di quel titolo, essendoché allora essi amavano assai il vedere di notte, nei larghi viali della città, spuntare d'improvviso nell'ombra, passare e sparire come razzi, come lucciole impazzite nella ventata di un turbine, le lanterne dell'economico e rotatorio bucefalo venutoci in voga.

Ma l'entusiasmo nei fondatori andòpresto evaporando, ed il giornale via via si faceva clorotico; cosicchési pensòdi cederlo all'avvocato Nicetti, ferace ingegno e temperamento generoso da letterato estemporaneo e transitorio, il quale trasformatone poi il titolo, forse rimase in dubbio se dovesse farne l'organo didascalico della democrazia, o piuttosto l'organo ufficiale scientifico della pollicoltura italiana pei gentiluomini di campagna.

Della prosa, che il Faldella scodellòsu quel giornale, doveva in processo di tempo galleggiare e conservarsi un solo frammento a cura del dottore Senatore Paolo Mantegazza, il quale lo raccolse e lo dispose con evidente compiacenza, in uno dei suoi celebrati almanacchi, ad illustrazione del Ratafià di Andorno, gloria di quella terra come Pietro Micca.

Intanto il Faldella si era inscritto alla fiorentissima societàDante Alighieri,che allora raccoglieva in Torino quanti giovani d'ingegno sentivano la nobile smania di calmare le inquietudini intime e primaverili nella libera espansione e discussione d'ogni idea artistica, scientifica e letteraria. Quella società era sorta in Torino nel 1864 per iniziativa degli studenti del 3°corso del liceo Cavour ?e si era successivamente accresciuta di matricolini universitari, sicchédalla sala dei primi tempi (all'ultimo piano della casa che sta di fronte al palazzo di Carignano) poté trasportare la sede nell'ampio Anfiteatro di Chimica. Ne furono promotori, Cerri, Nizza, Palberti, Cesare Nani, G. C. Molineri, Giuseppe Sarti, Luigi Guelpa, Galateo, Felice Maissa e Roberto Sacchetti, e ne fu presidente per tre volte Pietro Delvecchio, il quale dirigendo quei tumulti di verginità intellettuale seppe formarsi quello spirito cortese, facile e destro e quel sorriso duttile che ora lo accompagna e lo rende simpatico nella scabrosa vita parlamentare. Nella Dante fecero le prime prove d'eloquenza Federico Pugno, Benedetto Marsano e Ernesto Pasquali ?ed ivi Giuseppe Giacosa fece udire i suoi primi versi, fra cui la Cantica sul Materialismo, declamandola con una sonoritàdrammatica sentimentale, che sollevava l'entusiasmo.

Ivi Giovanni Camerana, severo ed ardente cultore di arte e di poesia vi scandiva tragicamente i suoi versi cesellati.

Quanto quei giovani fossero appassionati sinceramente dell'arte e della letteratura, si puòarguire dal seguente aneddoto che Giacosa raccontòin una lettera al Capuana pubblicata dal Risorgimento di Torino, e che il Capuana raccolse nei suoi studi di letteratura contemporanea.

La Dante,cedendo alle proposte de' soci piùseri, aveva cominciato a discutere alcuni problemi scientifici, sociali, immaginosi, ecc. come il materialismo, lo spiritualismo, la

riabilitazione della donna ecc. In fine della discussione si votava la tesi. Una domenica del 1871, al tempo della Comune di Parigi, racconta il Giacosa “si stava per votare, quando entrò nell'aula uno dei poeti, un finissimo disegnatore e coloritore di paesaggi in versi, ora grave e rigido magistrato (il Camerana), il quale, intesa appena qualche proposizione, più pallido e con voce più cavernosa del solito, tenendo in mano un dispaccio telegrafico, tremando per un'emozione profondissima, vibrò queste parole: “Mentre noi diciamo delle corbellerie, bruciano al Louvre i capolavori di Rubens e di van Dyck”.

Fu un affare finito e non si votò più nulla.

In quella folla di giovani, Giovanni Faldella riuscì presto uno dei più notevoli e dei piùnotati.

Alle adunanze pubbliche domenicali che si tenevano dalla Società, interveniva la parte più colta e più curiosa della cittadinanza torinese, a cui piaceva la letteratura; intervenivano assai signore e signorine, forse mosse essenzialmente da simpatie per quella scapigliatura di turbolenti autori in erba.

Il Faldella, in una di quelle adunanze, sorse con Antonio Galateo, anima fervida e gentile di oratore lirico, a difendere i romanzi del generale Garibaldi; e poiché nelle adunanze successive l'avvocato Pugno e Giuseppe Giacosa parafrasando ed esaltando una critica di Vittorio Bersezio contro i predetti romanzi, vollero confutarne la difesa, il Faldella replicò loro con ampollositàquasi umoristica di pensiero patriottico. Egli sostenne che il genio ha una potenzialità universale, quantunque in alcune parti possa difettare per mancanza di applicazione e di preparazione.

“Davanti ad un uomo grande ?egli sostenne ?non dobbiamo dimenticare la sostanzialità dei suoi meriti principali. Rimpetto a Garibaldi non siamo pubblico o critici davanti ad un autore, ma soldati e correligionari davanti ad un condottiero e ad un pontefice che deve tuttavia guidare la sua nazione alla sacra meta di Roma. Quindi per nessun modo dobbiamo diminuirne il prestigio.

“Se l'eroe, dopo aver compiti fatti grandi e magnifici, vuole ancora rivolgerci generose ed amorevoli parole, noi accogliamole con affetto e riverenza, ancora che non le troviamo vergate con le seste o misurate sulla lavagna. Teniamole in serbo e guardiamole gelosamente come la prima lettera di una sorella, l'ultimo scritto del babbo, o il ricordino di nostra madre...

“Se Garibaldi dorme qualche volta nei suoi romanzi, aliquando dormitat Homerus. Io penso che Garibaldi possa riposare di santa ragione, senza che altri lo mandi a letto... Quando Egli entròliberatore a Napoli prendendo stanza nel palazzo d'Angri, un'immensa folla si accalcava per visitarlo ed acclamarlo. Si annunziò a quella folla che il Generale stanco dormiva. Immantinenti la folla si ritrasse indietro; e tutti camminarono sulla punta dei piedi; e pareva si fosse formato per lo spazio di una lega un circuito di silenzio intorno al Generale, che dormiva”.

E conchiudeva fra uno scroscio d'applausi:

“Lontani mille leghe da lui imitiamo anche noi quel riverente silenzio”.

Il discorso veniva tosto riprodotto dal “Velocipede”.

In questa stessa epoca il Faldella, oltre le letture sciorinate alla SocietàDante Alighieri, smaltiva ad una Società democratica, L'Avvenire dell'Operaio, che si radunava in un sotterraneo di piazza San Carlo, alcune lezioni veramente libere. Tali letture e lezioni come: Il fine dell'uomo e il perchédei Carabinieri Reali, L'albero della scienza, La storia del mondo, Crescite et multiplicamini ecc. si trasfusero poi nelle Dicerie popolari che più tardi pubblicava sulle “Serate italiane”.

In esse cominciava ad accentuarsi l'individualità artistica ed apostolica dell'oratore.

Ma l'apogeo fulgido della sua vita di lecturer doveva raggiungerlo alla Dante Alighieri con Vita ed Amore, controcicalata a una drammatica lettura sul suicidio fatta dal socio Michele Termidoro, robusto e nutrito ingegno, casellatosi poscia capo ufficio nelle strade ferrate dell'Alta Italia.

La lettura tragica di Termidoro, a cui aumentava la intonazione funebre il nome bizzarramente rivoluzionario del conferenziere, commosse talmente gli astanti che se ne volle il bis alla festa annuale della Società, riunione solenne, in gala, con accompagnamento di musica ed intervento delle autorità; ed il Faldella vi contrappose Vita ed Amore quale soavità di rorida speranza, che gli valse l'applauso affettuoso delle signore e signorine. Entrambi i dissertatori vi furono festeggiatissimi: Termidoro come baritono, il Faldella come tenore.

Della Società caratteristica questi veniva poscia eletto vicepresidente; ed in essa, cedendo a istinti salubri di allegria, con Giacosa, Molineri, Pugno, Galateo, ecc. egli si prestava a combinare stupende discussioni in versi martelliani. I moniti presidenziali, le scampanellate, tutto doveva essere in versi martelliani; anche le interruzioni. Ed il Camerana austero poeta, in una di quelle divertenti adunanze sorgeva, girava intorno lo sguardo aquilino, e dopo una pausa di aspettazione si rimetteva gravemente a sedere, sillabando come un Torquemada: “Non chiedo la parola!...”.

Ma in quella fucina, fra la gravità non simulata di taluni momenti, nei quali sprizzavano pensieri alti e generosi, e la farsa acuta ed ironica, si temperavano pure saldamente molti fra i migliori caratteri e si snodavano alcuni fra i più elastici ingegni del Piemonte che ora onorino la coltura nazionale.

Nel 1871 il Faldella sparve da Torino per rifugiarsi nella sua nativa Saluggia e proseguirvi eremiticamente nuovi studi, osservando, mulinando e scrivendo; e vi fu eletto Consigliere Provinciale, sopraintendente scolastico, e si occupò a fondare una società artigiana con annessa biblioteca circolante, fino a che nel 1873 se ne andò alla Esposizione Mondiale di Vienna, donde la sua Gita col lapis.

In quell'epoca egli passando per Milano, conobbe Salvatore Farina, Emilio Praga, Arrigo Boito, Luigi Gualdo; e nell'avvicinarsi di quegli ingegni che si affiatavano a vicenda, senza nulla perdere delle proprie caratteristiche, si andava preparando miglior avvenire all'Arte della nostra giovane letteratura nuova.

In quell'epoca scarseggiavano i giornali letterari popolari in Italia; la maggioranza dei lettori volgevansi di preferenza ai lavori di Francia, poiché da noi punto o poco si produceva in fatto di letteratura facile ed amena. Per le biblioteche e per i gabinetti di lettura si posavano soltanto riviste dotte, mensili; riviste non scevre di pedanteria, riservate a scrittori troppo noti e maturi, dagli ideali defunti; schiave della tradizione, gravi di erudizione, esse non trovavano che pochi sonnecchiosi lettori. Mancava il soffio, il sentimento della modernità che rendesse la vita nuova, e soddisfacesse le menti avide dei giovani irrequieti in quella plumbea artificiosa atmosfera letteraria. Onde, quando il prof. Molineri fondava in Torino le “Serate italiane”, con intenti più largamente popolari, esse si onorarono in breve della cooperazione di quanti nuovi ingegni scattavano fuori di squadro in Piemonte ed in Lombardia.

In esse il Faldella, che già aveva collaborato nella “Rivista minima” di Milano, cominciò a pubblicare le sue Figurine state scritte in parte qualche tempo prima in campagna, nella schietta freschezza dei paesaggi, senza convenzionalismo, con acuta osservazione ed intuizione della vita reale.

Carluccio - Lord Spleen - Dies - Galline bianche e galline nere - Sull'organo - High Life contadina - I fumaiuoli - Gioberti e Radescki - La figliuola di latte - Un amore in composta - Gentilina - La vita nell'aia, vi passarono come zaffate di benefica aria frizzante, in uno schioppettìo di buonumore salubre, eccitando la curiositàdei giovanotti, e anche delle ragazze, ma di quelle non troppo artefatte e illanguidite dalla panna del romanticismo di convenzione. Erano scene, bozzetti di vera vita nostrale colta, appunto, oggettivamente; e odoravano come i paesaggi migliori della Sand, in Fadette, André, Fran?ois le Champi.

Cosìspiccava meglio la singolaritàdello scrittore; cosìmostravansi ad altro pubblico quelle originalità di frasi, quel paragoni violenti nella loro giustezza che dovevano rinnovargli

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