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BuonarrotiMichelangeloIlGiovane-LaTancia

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MICHELANGELO BUONARROTI IL GIOVANE

LA TANCIA

SERENISSIMA

GRANDUCHESSA

Io potrei credere che la Tancia, semplice, e rustica donzella usasse molto di temerità in ardire di comparire al cospetto di V. A. S. se più anni sono ella non fusse stata inanimita, e protetta talmente dalle Serenissime Gran Duchesse Christiana, e Maria Maddalena Arciduchessa, che non isdegnaron farla veder in Teatro pubblico: e se eziamdio non si potesse sperare, che si come la singular bontà, e umanità di V. A. costuma di gradire, e di accorre con particolar cortesia quelle donzelle , che ò fiori, òver o primizie le recano, così non fosse per isdegnare la festa, e ‘l riso che questa incolta villanella par che n’apporti nel suo inartificioso parlare. Non sarò né io ancora peravventura accusato di temerità, mentre io (che per opera delle stampe, e di questa mia dedicazione, la conduco alla Real presenza di V.

A.) vengo ad esprimer quella divozione, che a natural servitore, quantunque inutile, si richiede: eccitando intanto nella magnanima mente di V. A. occasion di esercitare la sua infinita benignità. Ma p erche io sò che nell’introdurre al cospetto de’ Principi alcuna persona conviene per molti rispetti esprimerne i nomi, e le condizioni ad essa attinenti, quello che fin’a ora, tutte quelle volte che la commedia della Tancia fu data alla stampa, si tralasciò, si produce al presente; cioèil nome dell’autore, che fu il Signor Michelagnolo Buonarroti, Il quale mentre vive non par che a mè sia lecito imaginare, e descriver qui allegoria alcuna intorno a niuna scena di una tal Favola, avvenga che non di rado sot to l’imagine di un suggetto umile si racchiudano sentenziosi sentimenti, si come par cosa manifesta della Bucolica di Vergilio, e d’altre. Et a V. A. S. umilissimamente inchinandomi, prego a quella da Dio ogni maggior felicità.

In Firenze gli 16. Agosto 1638.

Di V. A. S.

Umilissimo servo

Gio: Batista Landini.

Persone della Favola. Fesola Prologo

Cecco.

Ciapino. villani

Pietro Cittadino.

La Tancia.

La Cosa. villanelle

Mona Antonia.

La Tina. villane

Fabio Cittadino.

Giannino villanello.

Il Berna.

Giovanni. villani vecchi.

Il Pancia servidore del zio di Pietro.

_______________________________________________

FESOLA PROLOGO.

Se ‘l crin di stelle inghirlandato, e ‘l manto

Sparso di lune, se la verga aurata

Oggi non mi palesa, è perche tanto

Vissuta sono a gli occhi altrui celata.

Ma chiara esser vi dee la fama, e ‘l vanto

Del mio nome: io son pur Fesola Fata,

Quella da cui Fiesole ancor si dice

Quest’alma villa, già Città felice.

Così la disse il mio gran padre Atlante,

Atlante che col dorso il mondo estolle,

Allor che d’alte mura, e leggi sante

Illustre rese il fortunato colle;

Perche sendol’ io cara sovra quante

Haveva figlie, mè fra tutte ei volle

Altamente onorar di questa gloria,

Eternando così la mia memoria.

Regnai beata entro la nobil terra,

Nido de’ Toschi ancor si gloriosi,

Finché de’ Fiorentin l’invida guerra

Con lei distrusse i figli suoi famosi.

Allor con l’altre Fate anch’io sotterra

Entro l’oscura buca mi nasc osi,

Per pianger quivi il mio scempio fatale,

Né più veder l’inreparabil male.

Pensato avea di mai non uscir fuora,

Per non veder delle mie spoglie altera

Laggiù sull’Arno insuperbirsi Flora,

E lieta festeggiarne ogni riviera;

Ma perche Fata io son, vidi pur’ ora

Nel benigno rotar d’amica sfera,

Che sotto i rai delle Medicee stelle

Dovean le rive mie rifarsi belle.

E presaga che questa piaggia amena

Oggi vostro splendor dovea far chiara,

O miei Gran Duci COSMO, e MADDALENA,

O coppia di valor inclita, e rara,

Son venuta alla dolce aura serena

Di quel favor ch’ogn’animo rischiara,

Per inchinare, e riverir’umile

L’alta mia Donna, e ‘l mio Signor gentile.

E perche la virtù che ciò mi mostra,

Egualmente mi fa veder ch’Amore,

Per far dell’arte sua piacevol mostra

A voi ch’amate di si degno ardore,

Per questa di bei colli ombrosa chiostra

Ferira dolcemente più d’un quore;

Vengo a gioir con voi delle parole,

E de’ sospir di chi d’Amor si duole.

D’una favola nuova il nuovo gioco

Ascoltar vi sarà soave, e grato:

Dian l’auree scene, dia ‘l coturno loco

Ad umil selva, a rustico apparato.

Quel magnanimo quor s’inchini un poco,

Dall’ali del desio di gloria alzato:

E i profondi pensier de’ vostri petti

Giovi rasserenar con tai diletti.

ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Cecco, e Ciapino.

Cec. Ascoltami Ciapino, a dirti ‘l vero

tu fresti ‘l meglio a non te ne ’mpacciare.

Fà a mò d’un pazzo, levane ‘l pensiero,

E attendi ‘l podere a lagorare.

Tu hai già speso un’anno intero intero

Per voler questa rapa confettare,

E ti becchi ‘l cervello, e dico, e sollo,

Che costei ti farà rompere ‘l collo.

Non vedi tù com’ell’è stiticuzza,

Fantastica, incagnata, e permalosa?

Ciap. Eh quando l’appetito a un s’aguzza,

Non val a dir che la carne è tigliosa.

Cecco ‘l morbo d’amor tanto m’appuzza,

Che ‘l guarirne sarè difficil cosa.

Cecco i mi muoio, e vonne a maravalle:

I ho ‘l nodo al collo, e ‘l boia in sù le spalle. Cec. Stù dicessi davver, tù la lasceresti,

Né le staresti a fiutar più d’at torno.

Ciapin se questa via troppo calpesti,

Tù non ti rinverrai a suon di corno.

Chi ‘n sul pero d’amor vuol far de nesti,

Vede le frutte via di giorno in giorno,

Ma s’oggi son bugiarde, e zuccherine,

Saran doman cotognole, e sorbine.

Ciap. Io son troppo rinvolto nel paniaccio,

né mi sò così presto sviluppare.

Cec. Che ti venga ‘l parletico in un braccio,

Cavatela dal quor col non l’amare.

Ciap.S’io sapessi far testo fuor d’impaccio

Sarei, né tù m’haresti a rampognare.

Cec.Se n ‘l sai va lo ‘mpara. Ciap. E chi lo insegna? Cec.E’ si suole insegnar a suon di legna.

Ciap. A suon di legna? Che con le tabelle

Forse in qualche mò Amor s’usa incantarlo? Cec. Col darti del bastone in su la pelle

Mi dare’l quor d’addossoti cavarlo:

Io farei un sonar di manganelle,

Che n’uscire’ se tù v’avessi’l tarlo.

Ciap. Hai tu miglior ricetta d’un’altr’erba?

Cec. Non io. Ciap. Cotesta a te sì te ne serba.

Ma tù sei sempre mai su le billere,

E i mi sento sfanfanar d’Amore,

Tu ti pigli la Berta per piacere,

E più ribobol hai ch’un ciurmadore.

Non mi star più sù per le tentafere,

Aiuta trarmi ‘l diascolo del quore;

E fammi, se tu puoi, qualche servizio

Nanzi che’l prete m’habbia a dir l’ufizio. Cec. O che vuoi tu da me: ch e poss’io farti?

Ciap. Tu mi po’ atar, se tù vuo, con costei.

Cec. Quand’io potessi in ogni modo atarti,

In fine, in fine che vuo tu da lei?

Ciap. Che tu le dica ch’io sono in duo parti

Doviso su dal capo infino a’ piei,

E ch’io son mezzo suo, e mezzo mio;

Ma quel pezzo ov’è’l quore a lei mand’io. Cec.Vuo ch’ella faccia di te del prosciutto?

Il porco si salò già è un pezzo.

Ciap. Si vede ben, che tu se’ un Margutto,

Rimarro’n ogni mò così d’un pezzo;

E ben ch’io sia doviso i’ sarò tutto.

E’mi par che co’ dami non sij avvezzo.

Non sai ch’Amor quand’entra in un cervello,

Insegna sempre qualcosa di bello?

Cec. Bè sì, tu sa’ di lettera Ciapino,

Tu ne sa’ più che ‘l Notaio del Vicario.

E’ par che tu sij nato cittadino,

E i ntenda le leggende, e ‘l calendario:

Pensa che cosa è saper di latino,

E saper dicifrar bene il lunario,

E intender del messo le richieste,

E far con l’oste il conto delle preste.

Ciap. Lasciamo andar or questi ghiribizzi,

M’importa più la Tancia ch’o gni cosa.

Cec. Che diavol hai? e’ par che tu t’aggrizzi,

Tu ha’ fatt’una faccia pricolosa.

Ciap. E’ par n’un certo mo che’l cuor mi sfrizzi,

Come chi mangia cipolla acetosa.

Deh pensa a farmi presto qualche bene;

Cecco, i colpi d’Amor son male pene.

Tu che se’ suo vicino, e insieme seco

Bazzichi spesso, e se’ del parentado,

Che la Bita tua zia moglie è di Beco

Suo cugin, che si chiama Caporado,

Deh così di soppiatto a teco meco

Dille ch’io son caduto in un mal guado,

e che se presto ella non mi ripesca,

non sia possibol mai che vivo io n’esca.

Cec. O tu mi fresti fare un lagorio,

Ti so dir’io, da non se ne’ impacciare.

Ciap. Perche no’l vuoi tu fare? Cec. Addio addio,

Ch’oggi teco i non vo mal capitare.

Ciap. Mainò. Cec. Maisì. Ciap. Deh vien qua Cecco mio.

Cec. No no, che tu mi fresti mazzicare.

Ciap. O perche? l’è fanciulla, e i’ hò a tor moglie.

Cec. Ciapin tu rimarrai fuor delle soglie.

Ciap. Perche mi ti fai tu si scorrubbioso?

Cec. Quest’orzo non è fatto pe’ tuo’ denti:

Ell’hà un’altro di te più bel moroso,

E sai, che’la cavrà forse di stenti.

Ciap. O ecc’egli huom si poco rispettoso,

Che me la voglia tor? Cec. Non so, tu senti.

Ciap. Chi diacin è costui, che me la imbola?

Cec. Un che ti fra venir la cacaiuola.

Ciap. Dimmel se vuoi, deh non mi dar più fune,

Tu mi stravolgi ‘l quor com’un balestro.

Cec. Tanto dirò, che tu dirai, non piune,

Che d’erba amara t’empierò’l canestro.

Ciap. Dillo, che tu arrabbi. Cec. Il dico, orsune.

Gli è un che va vestito di cilestro.

Ciap. O tu mi fai venire il battiquore.

Cec. A dirti il vero, egli è Pietro Belfiore.

Ciap.L’oste di Ton di Drea? Cec. Cotesto si.

Ciap. O sgraziato Ciapin; che mi di tu?

Cec. Dissit’io che tu haresti oggi un mal di?

Ciap. Mi veggo rovinar giù colaggiù.

Un cittadin la Tancia? olà, tolì.

Cec. Non bisogna pensarci troppo sù.

Ciap. E che vuo’ tu ch’io faccia? egli è impossibole,

Che di tal bastonata io non mi tribole.

Cec. Però lasciala andar al brulicame,

Né volerti intrigar la fantasia.

Ciap. Ehimè Cecco il fatto delle dame

Chi non lo prova il crede una bugia.

Cec. Basta, che se di questa tu hai fame,

Tu ti morrai digiuno sal mi sia.

Ciap. Con questa nuova tua tu m’hai diserto.

Ma dimmel Cecco, salo tu di certo?

Cec. Ell’è piuvvica infamia, e io lo seppi

Cre’ che sia già un mese amman ammano;

Ch’io er’andato a portar certi ceppi

Un di di sciopro al sere a Settignano:

Io giunsi giù da Mensola in que’ greppi

Due che ne cicalavan di soppiano,

E io m’accostai lor così di dreto,

E intesi allotta dir questo sagreto.

Ciap. O come può egli esser che fin’ora

Io non habbia saputo nulla mai?

Cec. Se tu sei stato due mesi di fuora,

Che miracol’è ei se tu nol sai?

Ciap. Fui comandato a Livorno in malora

Per venti dì, ma mi tennon più assai.

Cec. Ombè, nel tempo, che tu vi se’ stato

Ci s’è scoperto questo innamorato.

Ciap.O va un pò a Livorno, e ’l fosso vota,

Lagora là per opra, ò piglia in sommo

Per toccar or nel capo questa piota,

Che mi sgomini tutto a imo a sommo.

Cec. Il mal’è poi ch’ella non è carota.

Beccati su Ciapin questo sommommo.

Ciap. Mi sento un certo che, che mi rattarpa.

Cec. T’ho fitto in corpo oggi una mala ciarpa. Ciap. Ell’è si mala, ch’io ne cre’ crepare

Nanzi ch’io pensi d’averla ingoiata.

Ma dimmi, hai’l tu mai visto vagheggiare?

Cec. Quand’e’ si fece un dì la scappanata

In pianmugnone il vidi stralunare,

E sentij che’ diceva, ella mi guata,

A un certo cittadin ch’io cre’ dottore,

Perche tutti ballaron da lui ’nfuore.

Ciap. Guataval’ella in fine? Cec. Io non m’arristio

A dir di si, ch’io non lo veddi bene:

L’hà ben un occhio com’un basilistio

Che quà, e là si volta, e và, e viene.

S’ella favella, ella par proprio un fistio,

Che chiami a una festa chiunque v’ene.

Ciap.O, se tu non sa’ altro io sono in piede,

Se tu m’aiuti come si richiede.

Cec. Tu sai che mai non ti disdissi nulla,

E se bene i ci veggo del travaglio,

Io ti vò percurar questa fanciulla,

Ma voglia Dio la non mi sappia d’aglio;

Io temo non entrar n’una maciulla

Ch’abbia il coltè di troppo sottil taglio.

Ciap. Sù Cecco allegramente, i’ t’imprometto.

Cec. E che? Ciap. Da darti aiuto a ogni stretto. Cec. Lo credo, a pricolar mi dara’ aiuto.

Ciap. Basta, fà pur qualcosa oggi di buono.

Cec. I ci farò quel che sarà dovuto,

Ma non vuo’ tu mandarle qualche dono?

Ciap. Si, queste due rosellin e, ch’io fiuto.

Cec.Ti sò dir io tu le dara’l perdono.

Uno scheggiale, un chiavaquore, un vezzo

Sarebbe’l fatto, o qualcosa di prezzo.

Ma un bel fior s’à lei tu vuoi mandallo,

Sarebbe un Moscon greco, un Aglio criso,

Mandale un Tolilpane ò rosso, ò giallo,

Un Nonnannome, un Vinciglio, un Narciso.

Ciap. Tu mi par diventato un pappagallo.

Questi nomi a gettarli a un can nel viso,

E haver a sorte qualche mazza in mano,

Lo faresti fuggir fino a Maiano.

Io non ho queste cose ora di punta,

Queste tu le darai per gentilezza.

Dille che col suo spillo amor m’appunta,

Lo spillo è d’oro, e è la sua bellezza.

E s’ella a Ciapin vuol farsi congiunta,

Io le imprometto fare ogni carezza,

E tutto quel ch’ho in casa, e’n sul podere

Sarà col suo Ciapino al suo piacere.

Cec. Queste parole io gliele dirò io,

Perche tu vuoi ch’io meni un parentorio:

Perch’altrimenti non sre’l fatto mio;

Che dell’onore anch’io, vedi, mi borio.

Ciap.Io ‘l sò, non mi far’ora il ripitio.

Or si che di dolcezza i mi gallorio.

Cec. I me la coggo. Ciap. Va che Dio ti dia

Sempre ‘l buon anno, e alla Tancia mia.

SCENA II.

Ciapino solo. Ciap. O se Cecco sapesse ciarlar tanto,

Ch’e’ mi potesse costei sibillare,

E la facesse venire allo ’ncanto,

Ch’a suo dispetto ella m’hav esse a amare,

A fe de’ dieri i non hare’ più ‘l ranto,

E mi parrebbe di risucitare.

O Cecco Cecco, i ti vo dar la mancia,

S’un dì tu mi fai sposo della Tancia.

SCENA III.

Pietro solo. Piet. Oltre qui hà per uso in su quest’otta

Venir la Tancia a far l’erba all’armento:

Mi vo porre a seder su questa grotta,

Dove ci tira sempre un po di vento:

Forse ch’ella potrebbe questa dotta,

S’ella ci vien, lasciarmi più contento:

E mentre ch’io l’aspetto io voglio intanto

Passarmi ‘l tempo, e trastullar col canto.

Ma forse io canterò stanza, ò canzone

Del Tasso, del Furioso, ò del Petrarca?

Nò ch’io non canterei della cagione

Com’Amor nel suo pelago m’imbarca,

Musa, deh dammi tu qualche invenzione

Di quelle di che già nun fusti parca,

Quando la sera doppo l’oste a’ marmi

Soleva all’improvviso cimentarmi.

CANTATA. Io che già libero, e sciolto

Corsi i dì di giovanezza,

Senza fren, senza cavezza

Resto a’ lacci d’Amor colto.

Già d’Amor fuggendo l’arte,

Per le bische, e pe’ raddotti

Mi vegliai intere le notti

Sin’a dì tra dadi, e carte.

E giocando fatto ‘l collo

Mi fu spesso, e messo in mezzo

Ben fui si ch’io andai al rezzo,

E diei giù l’ultimo crollo.

Sol signor di quattro zolle,

Traversal fidecommesso,

Mi rimasi, e stommi adesso

Per le ville al secco, e al molle.

Ma pur che la Tancia m’ami,

Vadia mal la mia grillaia,

Tolga ‘l vento il gran su l’aia,

e l’ulive di’n su rami,

Che se’l ciuffo, e ‘l collaretto

Dispregiai di cittadina,

Piacem’or di contadina

Una rete, e un fazzoletto.

Se di gemme ornato ‘l crine

Non curai di donna bella,

Amon un di nipitella

Ghirlandato, e roselline.

Tancia mia, deh vieni ò Tancia,

Vieni, e passa, e fa duò inchini,

E i vermigli ballerini

Scopri a me della tua guancia,

E se forse mia querela

Tra le frondi ascolti intenta,

Esci fuor pria che sia spenta

Del mio viver la candela.

Fine del cantar di Pietro. L’ora trapassa, e pur non vien costei,

Né altrove me che qui posso incontrarla,

Perche s’io son veduto dove lei,

Sempre ognun mi pon mente, e ognun ciarla

Si ch’io non posso fare i fatti miei,

E son forzato pur di seguitarla,

Se bene il zio me ne riprende, e sgrida,

E par ch’ognun di me si burli, e rida.

Ma chi si sente stringer col randello

Del destino, e del cielo a far qualcosa,

Che non paia così star a martello,

E che le genti tengan vergognosa,

Faccia se sa per disciorsi da quello,

Gli è un voler notar n’una ritrosa,

Conosco l’error mio, nè so negarlo,

Ma posso dir d’esser costretto a farlo.

SCENA IV.

La Tancia, e Pietro.

La Tancia cantando sola.

E S’io son bella, io son bella per mene,

né mi curo d’haver de’ gaveggini.

Piet.Certo ch’io l’odo qua venir cantando,

E tutto quanto ella mi riconsola.

La Tancia cantando sola.

E non mi curo gnun mi voglia bene,

Né manco vò ch’al tri mi faccia inchini.

Piet. Questo è ‘l cantar, vadia ogni zolfa ’n bando,

E ‘l trillo, e ‘l brillo, e ‘l dimenar di gola.

La Tancia cantando sola.

Agnun non vò prometter la mia fene,

Se ben mi voglion ben de’ cittadini.

Piet. Senti com’ella va la voce al zando,

E’ se n’intende almen qualche parola.

La Tancia cantando sola.

Ch’i hò sentito dir che gli amadori.

Son poi alle fanciulle traditori.

Piet. Questi intermedi, e queste lor cocchiate,

Che non s’intendon, mi paion orsate.

Ma poi ch’io veggo ch’ella vi ene in quà,

Né par ch’ella s’accorga ch’io ci sia,

Mentre ch’a suo piacer cantando và,

Gli è bene, acciò che noia io non le dia,

Che tra le frasche io mi ritiri là,

E finche dura a cantar io vi stia,

Poi cerchi uscendo fuor, col lusingarla,

S’egli èpossibil d’addomesticarla.

La Tancia cantando sola.

Ma s’un che me ne piace haver credessi,

E ch’io pensassi di parergli bella,

E’ potrebb’esser ch’io mi risolvessi

A ber’anch’io d’Amore alla scodella.

Gli hà i più beg’occhi che mai si vedessi,

Gli hà que lla bocca che par’una stella.

Gli è mansovieto, dabben, e binigno,

Non è come qualcun bizzoco, e arcigno. Piet.Pò fare il cielo, com’ella stà ‘n tuono,

Come le voci ella sa ben portare?

Ma que’ rispetti detti a mente sono,

credo havergliene uditi già cantare.

S’ella gl’improvissasse per di buono,

Com’elle soglion co’ lor dami fare,

A questo mò l’harebbe paglia in becco,

E i murerei la mia fabbrica a secco.

La Tancia cantando fuori.

Quel che si sia l’Amore io nol sò bene,

E non sò s’io sono innamorata,

Ma gliè ver che c’è un ch’io gli vò bene,

E sento un gran piacer quand’e’ mi guata,

E ‘l sento più quand’ e’s’appressa a mene,

E pel contradio, poiche’ m’ha lasciata,

Par che’ mi lasci un nidio senza l’uova.

Che cos’è Amor? Ditelmi un pò ch’il prova.

Fine del cantar della Tancia.

Ma or ch’io ho colta un’insalata bella,

S’io riscontrassi a sorta il mio sprendore,

Io gnene vorre’ dare una giomella,

S’io l’annuso, uh l’hà pure il buon’olore.

C’è della Menta, della Nipitella,

Della Borrana, che rallegra ‘l quore,

Quest’Acetosa, ch’è si grata al dente,

Lui, ch’è tutto sapor, par propriamente.

Io non credo, che mai per San Giovanni,

Ch’à Firenze si fà la processione,

Quand’ognun và a caval con que’ be’ panni,

Innanzi al Duca vadia un tal garzone.

O guarda un po s’à lui Ciapin, ò Nanni

Si può agguagliare, ò Sabatino, ò Mone.

Quel visaggio, quel dosso, quella cera,

Quel parlar, quell’andar, quella luchera. Piet. Chi sa? chi sa? forse ch’oggi non sono

Venuto qui a sproposito a aspettare;

Che più dell’ordinario mi par buono

Pe’ fatti miei questo suo ragionare.

Che s’io n’hò inteso per l’appunto il suono,

Par ch’ella voglia al fin significare,

Ch’io sia quell’io a chi la porta amore;

Quelle parole m’hanno tocco il quore.

Se ben la dice di non mi volere,

E stà ritrosa, chi sa poi, che questa

Fanciulla non lo faccia per vedere

Se nell’amarla io son fermo di testa?

Le donne son astute, e san parere

Di fuor n’un modo, a dentro è chi la pesta:

Et è impossibil chi dura a amarle

A qualche pò d’amor non isvoltarle.

La T. Ohimè ch’egli è qua quel cittadino,

Che mai mai non mi lascia pigliar sosta,

O mamma, ò babbo mio, ò fratellino,

Ohimè pover’a me se mi s’accosta.

Piet. Non fuggir, non temer angiol divino.

La T. Uh, par che’ venga per rubarmi apposta.

Piet. Il mio sperar hà hauto un poco fiato:

Gli è morto appunto, ch’egli è appena nato. Non mi par altrimenti d’esser quello

A chi ella pareva voler bene.

Ella m’haveva dipinto a pennello,

Ma ‘l color fu a guazzo, che non tiene.

Animo in ogni modo. O viso bello,

Che fai tu sola? La T. Che dite voi, chene?

Piet. Io dico che sarebbe otta oramai

Di non mi fuggir più, come tu fai.

E dico Tancia mia, che tu hà’l torto

A essermi crudele in questo modo.

La T. Che vi fo io? Piet. O tu mi guardi torto,

O tu non vuoi veder mi, e sempre t’odo

Proverbiarmi; e non ho maggior conforto

Ch’udirti, e di vederti sol io godo:

E dico che tu sei sempre più bella,

E mi pari una ninfa, ò una stella.

La T. E io non son la sninfia, io son figliuola

Di mona Lisa, e di mio pà Giovanni.

Ma lasciatem’andar ch’io son qui sola,

E anche hò a ir al fossato co’ panni.

Piet. Non ti partir; ascolta una parola

Di grazia. La T. Orsu cavatemi d’affanni,

Che mi par di star qui a un gran risco.

Piet. Non vedi tu com’io per te languisco?

La T. O che vu ol dir languisco? dell’anguille?

Piet. Nò, vuol dir moro. La T. Un moro bianco, ò nero?

Piet. E nò i’ mi disfo a stille a stille,

I’ mi consumo, i’ mi distruggo, i’ pero.

La T. Vo mi sonate in capo certe squille,

O che vien a dir pero? forse un pero?

Un pe ro, un moro, e dell’anguille attorno,

Le saran serpi, addio. Dio vi dia ‘l giorno.

Piet. Non ti partir si presto, odimi ascolta,

Ch’io parlerò, che tu m’intenderai.

Torna di qua, che ‘n quella macchia folta

Fra tanti pruni tu ti pugnerai.

SCENA V.

Pietro solo.

Ella mi s’è con tanta furia tolta,

Che’ par ch’ella non m’habbia visto mai,

Par che le mie parole siano state

Per farla fuggir via quasi incantate.

Quand’io mi metto seco a favellare,

Par ch’amor mi costringa a scer parole

Appunto apposta per farnela andare;

Che ‘l dir a lei mio cor, mio ben, mio sole,

Io moro è un volerla avviluppare.

Ma e’ mi vien sempre detto, il diavol vuole,

Perche non m’intendendo pigli il volo,

E io rimanga in asso un bel fagiuolo.

Ma ‘l non m’intend er sarebbe un piacere.

Il mal’è ch’ella non vuol pur udirmi.

E spesse volte per non mi vedere

Hà per usanza così di fuggirmi.

Or finalmente s’io la voglio havere,

Voglio ora mai a’ suoi più chiaro aprirmi;

Infino a ora i’ n’hò gettat’i motti,

Gli ha fatto il sordo, e sono stati chiotti.

Suo padre non puo creder ch’io la voglia,

E impossibil gli par ch’io l’addomandi,

E pensa ch’io, per cavarmi una voglia,

Finga volerla, e poi glie la rimandi:

Ciò non fare’ io mai; Iddio lo toglia,

Che questi son peccati troppo grandi.

Lo vò stringer or or tra l’uscio, e il muro,

E vò d’haverla mettermi in sicuro.

In qualche modo i’ vò venir a’ ferri;

Non è più tempo di star a vedere,

Non vò che quel Ciapin per sè l’afferri,

E mi sian guaste l’uova nel paniere.

E se questo, e se quel dirà ch’i’ erri,

Dica chi vuole, un tratto io vò godere,

Farò per ora orecchi da mercante.

Almanco almanco i’ non piglio una fante.

Fine dell’Atto primo.

Intermedio de’ frugnolatori cantato e ballato.

Su compagni quatti quatti,

Chi di quà,

Chi di là

Per la selva ognun s’adatti,

Frugnolando

Ramatando,

grossa preda riportando.

Guata guata quanti tordi,

Guata guata quante merle,

Ch’à vederle,

Già di lor ci fanno ingordi.

O che belle stidionate,

Se da noi son ramatate.

Vedi vè que’ petti bianchi,

Come par che bene aspettino,

Nè sospettino

Sonnacchiosi, grulli e stanchi.

Fate pur che ‘l frugnuol arda,

La ramata stia gagliarda.

Del frugnuol s’alcun di voi

Piglia spasso

Muova il passo,

E ne venga dreto a noi,

Frugnolando,

Ramatando,

Grossa preda riportando.

ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

La Cosa, e la Tancia. La C.S’i’ avessi per damo un cittadino

Che del suo Amor mi desse tal caparra,

Ch’io credessi d’haver su ‘l gamurrino

A cignermi ‘l colletto, e le zimarra,

Nè havessi a filar più stoppa, ò lino,

E ‘n cambio della falce, e della marra,

I guanti, il manicotto, e’ manichini

Portare, e a gli orecchi ciondolini,

Io non farei come sè tu si strana,

Verso Pietro, e faregli miglior patti.

A dirti ‘l ver, tu sei una villana,

E si t’avvolli. La T.Orsu bada a’ tuo’ fatti.

La C. Tu se’ una fraschetta, una fanfana,

La T. Oh nella pacienza tu mi gratti.

La C.Io te lo dico, perch’io ti vò bene.

La https://www.wendangku.net/doc/ed7263955.html,scian’a me ‘l pensier, che’ non t’attiene.

La C.In fin, se tu nol vuoi, si sia tuo ‘l danno.

La T. E mio danno si sia, non ti dia noia.

Che se della mia stizza io scaldo ‘l ranno

Ti leverò d’in sul ceffo la loia.

La C. Tu vai brucan do, ch’io ti dia ‘l malanno,

E t’appicchi sul muso questa gioia.

La T.Guarda chi s’hà a impacciar de’ casi miei.

La C.Tu va’ caiendo i’ dica chi tu sei.

La T. Chi son io? che può tu, che può tu dire?

La C.Un’arrabbiatellaccia: hottel’io detto?

La T. Doh che tu possa di fame morire.

La C. E tu di peggio, dimon maladetto.

SCENA II.

Cecco, la Tancia, e la Cosa.

Cec.O i’ veggio la Tancia, i’ vò là ire,

E’ sarà ben ch’io faccia quell’affetto.

Ma e’ v’è la Cosa, e sono imbufonchiate.

Sta a veder ch’elle s’enno abbaruffate.

Che s’ha a far là, ch’havete voi doviso?

La T.Cecco la me n’ha data scasione.

Cec. Di che? La T.Ch’io l’habbia a infragner oggi ‘l viso.

La C. Le son false bugie. Odi Ceccone,

Ti vò contar, ascolta. Cec.O bello ‘ntriso.

La T. E che tu dirai? La C. Va cercalo. La T.E i’ lo sone.

La C. E tu no ‘l sai, perch’io non vò dir fiato;

O va. Cec.O questo si, ch’è un bel piato.

Secondo mè, le vostre fantasie

Saran forse pe’ dami una triocca.

La T. Certo Ceccon se tu non eri quie

Le sbarbava i capegli a ciocca a ciocca.

La C.Di un’altra volta, i’ non ho inteso, die.

Vuò tu giucar, ch’io ti chiuggo la bocca?

Cec. Orsu per non accender più la brace

Vò ch’or or voi facciate qui la pace.

La T. I non le volli mai male alla Cosa;

Ma la mi vuole a suo mo stramenare.

La C.Nè i’ a lei, ma l’è troppo stizzosa.

E sa’ tu Tancia, vaglia a perdonare,

A dirti ‘l vero e’ ti pute ogni cosa.

Cec.Su ch’io vi vegga insieme rallegrare;

Fatevi innanzi, e su la man vi date,

E come v’eri prima amiche si ate.

Infatti pur le donne son di mele,

Le son di cacio, e di ricotta fresca,

L’er’ora l’una, a l’altra si crudele

Ch’io m’aspettava qualche mala tresca.

Le donne propiamente non han fiele;

E se la stizza lor dà fuoco all’esca,

Duo fregagioni con quattro parole

Le fanno al fin poi far ciò che l’huom vuole.

Io vò che questa pace con un ballo

Qui frà noi tre si venga a sconfermare.

La C. Uh, i’ metterò forse i piedi in fallo,

Perch’io non son tropp’usa di ballare.

Cec.Reggi con l’una mano il grembiul giallo,

E lascia l’altra al fianco ciondolare.

Tancia, fà tu ‘l medesimo, e tal volta,

Fate uno inchino, e una giravolta.

Cantiamo in questo mentre uno strambotto

Di que’ che no’ cantammo all’Impruneta.

La T. Deh diciam quel che dice. Non far motto

Perche tu se’ fanciulla, e statti cheta.

La C.Mainò, quel che comincia. I’ hò diciotto

Bachi alla frasca, e vò far della seta.

Cec. Nò nò questa canzona sì, ch’è nuova,

Che principia così. Chi Amor non trova.

Canzone a ballo cantata da

tutti e’ tre.

Chi Amor non trova,

E cerca Amore,

Mi tasti ‘l cuore,

Che quivi cova,

Dalle sue uova

Nascon pensieri,

Sempre vari, bianchi, e neri.

Questi le sere,

Quest’i mattini

Quasi pulcini

Ne vanno à schiere.

Beccar, e bere

Sempre cercando.

Nè se stessi mai saziando.

La lor pastura,

E la speranza,

Che lunga usanza

Ogn’or più indura,

Nè mai matura

Quant’altri brama,

E pasciuta mai non si sfama,

Avventurato

Colui tengh’io,

Ch’à suo desio

O aia, ò prato

S’è procacciato

Da far satolli

Tutt’i suoi pulcini, e polli.

Cec. Dio vi dia tanto ben di questa pace,

Che d’ogni carestia siate satolle.

La C.Io me ne voglio andar s’e’ non vi spiace,

Che s’io stò troppo fuor mia madre bolle,

Adio. Cec. Addio. La T. Addio.

SCENA III.

Cecco, e la Tancia.

Cec. Orsu mi piace

Ch’ora costei dinanzi ci si tolle,

Ch’a dirti ‘l vero, i’ ti vò favellare.

La T. Di pur su Cecco, ch’io ti strò ascoltare.

Cec.I’ t’hò sempre ma’ hauta in prodizione,

E tengo di te conto, e voti bene,

Che’ tuo’ parenti son buone persone,

E tuo padre, e ‘l tuo zio, e chi t’attiene,

Però voglio a tuo utole, e tuo prone

Ragionar teco, come si conviene,

Ma intanto piglia queste roselline,

Ch’hanno un olor, deh fiuta, di quel fine.

Conosci tu Ciapin di Meo del Grigio?

La T.Si conosco, che’ p ossa dilefiare.

Cec. O, io gli posso far poco servigio,

Questo non mi par tempo da ‘mpaniare.

La T. E’ tel’hà date? Cec. Si. La T. Ve, ch’io le pigio,

I’ le vò per dispetto calpestare.

https://www.wendangku.net/doc/ed7263955.html,scia ch’io dica prima due palore,

E poi t’adira se’ ti vien l’u more.

Ma sai, non bisogn’esser si crudela,

Tu non ha’ pacienza un miccichino,

Tu mi riesci una rubida tela,

Più tosto di capecchio, che di lino.

La T. Uh i’ sento una pecora che bela,

Ch’ella non habbia perso un’agnellino,

Di presto, ch’i’ voglio ir a porlo in branco.

Cec. Orsu ascolta mostacciuzzo bianco.

La T. Oh tu faresti ‘l meglio, Cecco, vè.

S’io non son bianca, i’ son quel che mi pare,

E’ ce nè delle nere più di mè.

Cec.Con chi l’hai tu? La T. Tu mi sta’ a uccellare,

Tu non harai la figliuola del Rè

Tu mica no. Cec. E’ non si può burlare

Con esso teco Tancia, i’ non t’ho morta.

La T. Tu mi strazi, ma basta, non importa.

Cec.Mai no, mai no, i’ vo la burla, e sono

Venuto a favellarti di Ciapino.

La T. I’ non ti voglio udire. Cec.I’ non ragio no

Di cosa, ch’habbia a farti ‘l capo chino:

I’ t’ho portato da sua parte un dono.

La T. Non vò suo’ doni, ho del pane, e del vino.

Cec.Ombè, appunto i’ ti reco ‘l suo quore,

Tu ‘l puoi mangiar col pane a grand’onore.

La T. Dov’è e’? mostra, in che mo si quoc’egli?

Cec.Fa conto che una ghiotta sia ‘l tuo petto,

Fanne’nsieme col tuo due fegategli,

E lega l’un, e l’altro stretto stretto;

Così verranno stagionati, e begli,

Se ‘l fuoco del tuo Amor farà l’effetto.

La T. Io ‘l mio quor non vo’ metter in infil za,

Se ‘l suo è poco cavisi la milza.

Cec.Se ben io dico, che ‘l suo quor ti porto,

Gli è quel dettato , e’ non è ‘l quor davvero,

Che se’ se ‘l fusse tratto e’ sare’ morto,

E di te non harebbe più pensiero.

La T. Donche, che quore è questo? Cec.Eh tu ha ‘l torto

A far le lustre del bianco pe ‘l nero.

La T.S’io non t’intendo. Cec.Tu ‘ntendi capresta,

Ti porto di Ciapino una richiesta.

La T. Una richiesta debb’ire a mio pà,

Ch’hà debito col Prete cinque lire.

Cec. Malan che Dio ti dia: vien un po qua,

Fai tu le viste, ò non mi vuoi udire?

E’ dice che l’amarti mal gli fa,

E che vorrebbe in tutti i mò guarire,

Ti vorre’ per sua donna, e ti scongiura,

Tu gli voglia oramai dar la ventura.

Ve com’in seno ‘l capo ella s’è messo,

Par ch’io le rechi qual che nuova rea.

Ma ve com’or mi guarda, i’ son ben desso:

Tancia tu se’ salvativa, e malea.

To ve di nuovo giù la l’ha rimesso:

Alza ‘l capo po far la nostra dea.

La T. Cecco s’altri che tu mi favellassi

Di queste cose, i’ gli trarre de’ sassi.

Cec. Di tu da vero? Pensaci un po bene,

Che ci sarà chi ‘l piglierà, dappoca,

La Cosa, so ben io che gli vuol bene.

La T. Che mi fa a mè? Cec.E non è mica un’oca.

La T. A cah, si si, or conosco perchene,

La mi volea dar Pietro la bizzoca.

Cec. O basta donche. La T. Vedi non parlarmi

Più di Ciapino, ò tu fara’ adirarmi.

Cec.Ohimè hott’io ferita? hott’io percossa?

La T. Non vò che tu mi parli di costui.

Cec.O ‘l vuoi tu veder morto intruna fossa?

Vuo’ che s’impicchi? che vuo’ far di lui?

Vuo’ che ‘n un rovinio s’infranga l’ossa?

Se’ non s’ammazza, e’ ne starà infra dui,

Si monderà gli stinchi con un segolo,

O nel capo a due man si drà d’un tegolo.

Stara’ a veder che’ frà qualche pazzia.

La T. A sua posta, farà su la sua pelle.

Tal noia mi desse un’altra fantasii a.

Ch’ho nel quor fitta, e mai non se ne svelle.

Cec. E che domin ha’ tu? che diavol fia?

La T. So ben io, ma. Cec. Deh dimmi, ecci cavelle?

La https://www.wendangku.net/doc/ed7263955.html,sciamen’ir. Cec.Ha’ tu qualche malore?

La T. Non vò dir nulla, addio. Uh il mio quore.

In fatti quand’io sono a Cecco presso

Mi sento tutta drento ribollire,

Mi s’è ora pel dosso un fuoco messo

Che quasimente io stò per isvenire.

O Tancia tapinella, quest’è desso

Che hà un tratto di tè a far dire.

M’è stata quasi per uscir di gola

Per dirgli del mio Amor qualche porola.

SCENA IV.

Cecco solo.

Cec.Ella se n’è andata grulla grulla,

E m’hà lasciato attronito, e confuso.

Che diacin può haver questa fanciulla?

A certi favellari io non son uso.

Ma per Ciapino i’ non hò fatto nulla,

So ch’egli hà hauta la pesca nel muso.

Ma coste’ infine, che diamin hà ella?

La m’hà messo sozzopra le budella. Scasimoddeo la farà ‘nnamorata

D’un altro, e Ciapin habbia pacienza.

Sta a veder ch’egli è Lapo del Granata

Ch’andò unguannaccio un dì s eco a Fiorenza.

Sarà forse Drein di mona Mata.

E’ potrebb’esser Nanni del Valenza.

I’ non cre’ che di mè l’havesse ‘l verme,

Ch’ella m’harè richiesto di volerme.

I’ non saperre’ ire scompensando

Quel ch’ella s’habbia così a un tratto.

Bisogna andarci un po su strogalando,

Forse i’ potre’ aocchiar questo fatto.

I’ vò ghiribizzarlo: e se mai, quando

Amor per mè l’havesse un colpo tratto,

I’ havessi pietà pur di costei,

Che potre’ dir Ciapin de’ casi miei?

L’è una badalona rigogliosa,

Ch’èdi latte, e di sangue, e mi s’addrebbe,

L’è cresciutoccia, fresca, e gicherosa,

La pare una ricetta per la frebbe.

Ell’hà quella boccuzza rubinosa,

Ch’a porvi su un coral non si vedrebbe:

Mentr’io ci penso mi vien appipito,

S’ella volesse, d’esser suo mar ito. Perdonimi Ciapin per questa volta,

Se poiche seco ella non vuole ‘l bacco,

Cercherò io d’Amor far la ricolta

Dove la falce sua non hebbe attacco.

Quand’io m’abbatto in lei s’ella m’ascolta

Senza concrusion io non mi stacco.

I’ vò cavar da lei cappa, ò mantello,

Ceseri, ò Niccolò, i’ vò vedello.

Ma ecco qua quell’altro damerino;

O questo si mi mettere’ paura,

Perch’egli è sgherro, e poi è cittadino,

D’haverne un tratto la mala ventura.

SCENA V.

Pietro e Cecco.

Piet. Differenza non fa dal cittadino

Al contadin la legge di natura;

E manco Amor vi fa differenza,

Come si vede per esperienza.

Non sono ‘l primo, e non sarò anche ‘l sezzo,

Che moglie pigli, che non sia sua pari;

Ma molti son che si vendono a prezzo,

E la pigliano ignobil per danari.

Io non istimo mille scudi un bezzo,

E so ‘l gastigo de’ mariti avari:

Di mè non si può dir se non ch’amore

Mi ci habbia spinto, e non viltà di quore.

E finalmente i’ hò considerato

Ch’egli è impossibil ch’io viva senz’essa,

I’ hò suo padre poco fa trovato,

Hogliela chiesta, e dopo una gran ressa,

Che’ dubitava d’essere ingannato,

Giurandogli io che nò, me l’hà promessa:

Cosa fatta cap’hà: non me ne pento,

Lei mi piace, i’ l’hò presa, e son contento.

I’ son contento, e liet o, e per diletto

Vommmene or quà, or là di lei cantando;

Perche s’io vò, s’io stò, s’io son nel letto,

Sempre l’hò ‘n fantasia desto, o sognando,

E ogni mio pensiero in un sonetto,

O stanza, ò madrigal vo dispiegando;

Che poiche del suo Amor mi feci ardente

Son poeta, e son musico eccellente.

Cec.Gli accorda ‘l suono, e’ dee voler cantare, Quelle corde mi paion campanegli,

Senti com’elle squillano: ò po fare,

A dir ch’elle sian fatte di budegli.

Piet. Diavol che questo bischer voglia entrare.

Cec.Canti mai più, che domin aspett’egli?

I’ non l’intenderò s’io non m’accosto.

Ma i’ no ‘l vò sconturbar, vò star discosto.

Pietro cantando.

Questo ciel, queste selve, e questi sassi

Più non risoneran de’ miei lamenti,

Io più non havrò gli occhi umidi, e bassi,

Nè più trarrò dal sen sospir dolenti,

Versar diletto, e gioia il cor vedrassi,

E risplendermi ‘n volto i miei contenti:

La villanella mia schiva e ritrosa

Goderò pur alfin fatta mia sposa.

Fine del cantar di Pietro.

Cec. Canchitra, così ben non can ta ‘l sere

Quando s’accozzan egli, e ‘l cherichino.

Son’ito in visibilio per piacere,

Capperi e’ canta com’un lucherino,

So stato di dolcezza per cadere,

I’ starè senza pane, e senza vino

Tre ore a ascoltar questa musèca,

E a sentir trillar quella ribèca.

O se’ la ricantasse un’altra volta

Quella frottola, i’ crè ch’io andre’ matto,

Crè che ‘l cervello mi darè la volta,

Che vè gli stà per darla tratto tratto.

Piet. Huomo da ben, vien qua, odimi, ascolta.

Cec. Dite vò a mè? Piet. Si, odi. Cec. Eccomi ratto.

Gli è si allegro, che’ mi vien disio

Di voler oggi fare ‘l fatto mio.

I’ hebbi ‘l cervel sempre a quel podere,

Ch’egli vuol allogar presso al cesale:

Io gliel vò chiedere daddover: messere

I’ son qui ritto vostro servigiale.

Piet. Che vai tu qui facendo? Cec. Ora di bere,

E’ si fa poco in questo temporale

Non sendo l’annual di piovitura:

E anche vò cercando mia ventura.

Piet. Gli è vero i temporali vanno strani.

Cec. Si gran seccore, e sempre tirar vento

Smugne le barbe pe’ poggi, e pe’ piani,

Che la terra hà perduto ogni alimento,

E screpolati son sino a’ pantani.

C’è spaccature si larghe, e si adrento,

Ch’un che non badi vi capitrè male:

Non è piovuto sin da Carnesciale.

Piet.In modo che no’ harem mala ricolta?

Cec. Leggete voi come stà la campagna:

Fuor che del vino ella non sarà molta,

Per ingenito ogn’uno se ne lagna.

Piet.Grano? Olio? Cec. La paglia è poco folta:

Olio io non hò, ma ‘l fattoio ne guadagna.

Le fave poi son tutt’ite al bordello,

Non s’è veduto quest’anno un baccello.

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